domenica 12 aprile 2009

Ritorna la Pasqua
di Massimo Camisasca
08/04/2009

La Chiesa ci fa rivivere ogni anno tutti i misteri della vita di Cristo. Sa benissimo che noi abbiamo bisogno di molto tempo per entrare dentro i fatti, che siamo spesso distratti proprio di fronte alle cose più importanti, che siamo sopraffatti dai nostri pensieri, preoccupazioni, e anche dalle nostre passioni. Per questo ritorna la Pasqua. Per aiutarci ad entrare in un avvenimento che in realtà non riguarda soltanto alcuni giorni dell’anno, ma tutta la nostra vita. Che cosa è la Pasqua? è la resurrezione di Gesù. I giorni della passione, infatti, conducono lì. Senza resurrezione la passione sarebbe stata soltanto l’altissimo e spropositato gesto di condivisione del nostro male, compiuta dall’uomo più buono della terra. è soltanto la resurrezione che illumina tutto di una luce nuova e assolutamente originale. Colui che è stato morto è ora vivo, e vive per sempre. La resurrezione di Gesù inaugura dunque la sua contemporaneità ad ogni istante della nostra vita. Non siamo più soli. Anche le presenze degli uomini, che tante volte sembrano lasciare intatta la nostra solitudine, nella prospettiva della resurrezione acquistano una luce e una forza nuova. Perché il risorto è Gesù di Nazareth, che obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte di croce, in grazia proprio di questa sua obbedienza, è stato restituito alla vita, alla vita che non finisce, perché è la vita di Dio.Non siamo più soli nel mondo. Questo è il grande annuncio della Pasqua. Esso si manifesta dentro di noi innanzitutto come capacità di uno sguardo nuovo. In certe giornate sembra che tutto vada storto, che ci sia soltanto il male, che le gelosie e le rivalità degli altri non facciano altro che schiacciarci… Può anche essere così, qualche volta. Ma queste giornate nere sono spesso il frutto della nostra chiusura di fronte alla presenza operante di Dio. Non sappiamo più vedere i segni della sua azione. La Pasqua invece inaugura nella nostra vita una nuova capacità di vedere. Dobbiamo innanzitutto chiederci: perché queste persone accanto a me? Perché mio marito, mia moglie, i miei figli, i miei amici? Prendiamo sul serio l’ipotesi che siano stati messi al nostro fianco proprio da Dio per aiutarci a camminare verso di lui. E i doni che abbiamo ricevuto, li ricordiamo ancora? La vita, la fede, l’incontro con coloro che ci hanno permesso di crescere, di diventare adulti, per molti di noi l’incontro con don Giussani e con il Movimento, le occasioni che Dio ci ha dato per incontrarlo nei piccoli, nei poveri, nei più semplici, e infine in tutti coloro che in un modo o in un altro ci hanno provocato a rompere lo schermo dell’abitudine.La vita è fatta di incontri. Anche questi giorni di passione e di luce ce lo hanno testimoniato. L’incontro con Gesù ha cambiato la vita di tanti. Pensiamo alla Veronica, al Cireneo, al ladrone pentito, al centurione. Ma anche a Barabba, a Pilato, Giuseppe d’Arimatea, e dopo la resurrezione, la Maddalena, Pietro, Giovanni, i discepoli di Emmaus.L’incontro con Gesù non li ha lasciati più come prima. Grandi romanzieri di tutti i tempi hanno cercato di immaginare cosa sia successo loro. Sono nate le opere letterarie sulla Veronica, su Barabba, su Disma. Lo stesso può succedere a noi. Non certo di diventare protagonisti di un romanzo, ma qualcosa di molto più importante: di diventare protagonisti della storia di Gesù. Attraverso la resurrezione, attraverso il dono del suo spirito, Gesù lega a sé la nostra vita. Istante dopo istante, quello che viviamo non ha più soltanto il senso comune del susseguirsi dei momenti. è una vita per lui, donata a lui, è una domanda di conoscerlo, di vederlo, è una domanda che il nostro cuore sia cambiato per potere amare gli altri come lui li ha amati. Lo ha scritto bene san Paolo in una lettera ai cristiani di Corinto: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro. Se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». (2Cor 5,15-17)

sabato 11 aprile 2009

IL PORTICO DEL MISTERO DELLA SECONDA VIRTÙ
da: Ch. Péguy, IMisteri, Milano, Jaca Book 1991.)

Gesù Cristo, bambina, non è venuto per dirci frivolezze,
Capisci, non ha fatto il viaggio di venire sulla terra,
Un grande viaggio, detto tra di noi,
(E stava così bene là dove era).
(Prima di venire

Non aveva tutte le nostre preoccupazioni),
Non ha fatto il viaggio di scendere sulla terra
Per venire a contarci indovinelli
E barzellette.
Non c’è il tempo di divertirsi.
Lui non ha messo, non ha impiegato, non ha speso
I trentatré anni della sua vita terrestre,
Della sua vita carnale,
I trent’anni della sua vita privata,
I tre anni della sua vita pubblica,
I tre giorni della sua passione e della sua morte,
(E nel limbo i tre giorni del suo sepolcro).
Non ha messo, non ha impiegato, non ha speso tutto questo,
I suoi trent’anni di lavoro e i
suoi tre anni di predicazione e i suoi tre giorni di passione e di morte,
I suoi trentatré anni di preghiera,
La sua incarnazione, che è propriamente il suo incarnamento,
La sua messa in carne e in carnale, la sua messa in uomo e
La sua messa in croce e la sua messa nella tomba,
La sua messa nel carnale e il suo supplizio,
La sua vita d’uomo e la sua vita d’operaio e la sua vita di prete
e la sua vita di santo e la sua vita di martire,
La sua vita di fedele, La sua vita di Gesù,
Per venire in seguito (nello stesso tempo) a contarci frottole.
Non ha messo, non ha impiegato, non ha speso tutto questo.
Non ha fatto tutta questa spesa
Considerevole
Per venire a darci, per darci in seguito
Degli indovinelli
Da indovinare
Come uno stregone.
Facendo il furbo.
No, no, bambina e Gesù non ci ha neanche dato delle parole morte
Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole
(O in grandi). E che dobbiamo conservare in olio rancido
Come le mummie d’Egitto.
Gesù Cristo, bambina, non ci dà delle conserve di parole
Da conservare,
Ma ci ha dato delle parole vive
Da nutrire.
Ego sum via, veritas et vita,
Io sono la via, la verità e la vita.
Le parole di (della) vita, le parole vive non si possono conservare che vive,
Nutrire vive,
Nutrite, portate, scaldate, calde in un cuore vivo.
Per nulla conservate ammuffite in piccole scatole di legno o di cartone.
Come Gesù ha preso, è stato costretto a prendere corpo, a rivestire la carne
Per pronunciare queste parole (carnali) e per farle intendere,
Per poterle comunicare,
Così noi, ugualmente noi, a imitazione di Gesù,
Così noi, che siamo carne, dobbiamo approfittarne,
Approfittare del fatto che siamo carnali per conservarle, per scaldarle, per nutrirle in noi vive e carnali,
(Ecco ciò che gli angeli stessi non conoscono, bambina, ecco cosa non hanno provato)
Come una madre carnale nutre, e fomenta sul suo cuore il suo ultimo nato,
Il suo lattante carnale, sui suo seno,
Ben posato nella piega del suo braccio,
Così, approfittando del fatto che siamo carnali,
Dobbiamo nutrire, abbiamo da nutrire nel nostro cuore,
Con la nostra carne e col nostro sangue,
Col nostro cuore,
Le Parole carnali,
Le Parole eterne, temporalmente, carnalmente pronunciate.
Miracolo dei miracoli, bambina, mistero dei misteri.
Perché Gesù Cristo è divenuto nostro fratello carnale
Perché ha pronunciato temporalmente e carnalmente le parole eterne,
In monte, sulla montagna,
È a noi, infermi, che è stato dato,
È da noi che dipende, infermi e carnali,
Di far vivere e di nutrire e di mantenere vive nel tempo
Quelle parole pronunciate vive nel tempo.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE ALL’ARCIVESCOVO DE L’AQUILA IN OCCASIONE DEL RITO DI SUFFRAGIO PER LE VITTIME DEL TERREMOTO

10.04.2009

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato all’Arcivescovo de L’Aquila, S.E. Mons. Giuseppe Molinari, di cui è stata data lettura da Mons. Georg Gänswein all’inizio del rito di suffragio per le vittime del terremoto:

Al Carissimo Arcivescovo Giuseppe Molinarie a tutti voi, carissimi fratelli e sorelle nel Signore,
In queste ore drammatiche in cui un’immane tragedia si è riversata su codesta terra, mi sento spiritualmente presente in mezzo a voi per condividere la vostra angoscia, implorare da Dio il riposo eterno per le vittime, la pronta ripresa per i feriti, per tutti il coraggio di continuare a sperare senza cedere allo sconforto. Ho chiesto al mio Segretario di Stato di venire a presiedere questa celebrazione liturgica straordinaria in cui la comunità cristiana si stringerà intorno ai propri defunti per dare loro l’estremo saluto. Affido a lui, e al mio segretario particolare, il compito di recarvi di persona l’espressione della mia accorata partecipazione al lutto di quanti piangono i loro cari travolti dalla sciagura.
In momenti come questi, fonte di luce e di speranza resta la fede, che proprio in questi giorni ci parla della sofferenza del Figlio di Dio fattosi uomo per noi: la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione siano per tutti sorgente di conforto ed aprano il cuore di ciascuno alla contemplazione di quella vita in cui "non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,4).
Sono certo che con l’impegno di tutti si può far fronte alle necessità più impellenti. La violenza del sisma ha creato situazioni di singolare difficoltà. Ho seguito gli sviluppi del devastante fenomeno tellurico dalla prima scossa di terremoto, che si è avvertita anche in Vaticano, ed ho notato con favore il manifestarsi di una crescente onda di solidarietà, grazie alla quale si sono venuti organizzando i primi soccorsi, in vista di un’azione sempre più incisiva sia dello Stato che delle istituzioni ecclesiali, come anche dei privati.
La Santa Sede intende fare la sua parte, unitamente alle parrocchie, agli istituti religiosi e alle aggregazioni laicali. Questo è il momento dell’impegno, in sintonia con gli organismi dello Stato, che già stanno lodevolmente operando. Solo la solidarietà può consentire di superare prove così dolorose.
Affido alla Vergine Santa persone e famiglie coinvolte in questa tragedia e, attraverso la sua materna intercessione, chiedo al Signore di asciugare ogni lacrima e di lenire ogni ferita, mentre invio a ciascuno una speciale, confortatrice Benedizione Apostolica.


Dal Vaticano, 9 aprile 2009BENEDICTUS PP. XVI

da www.clonline.org

venerdì 10 aprile 2009


TERREMOTO IN ABRUZZO
PASSIONE DELL'UOMO, PASSIONE DI CRISTO
Ancora una volta siamo stati feriti nell’intimo del nostro essere da un
evento sconvolgente. Così sconvolgente che è difficile sottrarsi alla domanda
circa il suo significato, talmente supera la nostra capacità di comprensione.

La questione è tanto radicale quanto scomoda. Non possiamo cercare di
chiuderla in fretta, desiderando di voltare pagina quanto prima per dimenticare.
Non è ragionevole restare prigionieri di una emotività che ci
soffoca, tanto meno spostare l’attenzione su eventuali responsabili.

La carità sterminata, che si è documentata in questi giorni come moto
spontaneo e che sarà necessaria soprattutto nei prossimi mesi quando ci
sarà più bisogno di aiuto, indica che la dimenticanza non è l’unica strada.
Eppure neanche questa mossa è in grado di esaurire l’urgenza della domanda,
suscitata dall’esperienza della nostra impotenza di fronte al terremoto.

Eventi come questo ci mettono davanti al mistero dell’esistenza, provocando
la nostra ragione e la nostra libertà di uomini. Sprecare l’occasione
di guardarlo in faccia ci lascerebbe ancora più smarriti e scettici. Ma per
stare davanti almistero dell’esistenza abbiamo bisogno di qualcosa di più
della nostra pur giusta solidarietà. Da soli non possiamo.

La compagnia di Cristo - che è all’origine dell’amore all’uomo proprio del
nostro popolo - si rivela ancora una volta decisiva nella nostra storia: una
compagnia che dà senso alla vita e allamorte, alle vittime, ai sopravvissutiGiustifica
e a noi stessi, e sostiene la speranza.

L’imminenza della Pasqua acquista, allora, una nuova luce. «Egli che non
ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci
donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32).
Comunione e Liberazione
Aprile 2009.

martedì 7 aprile 2009

Mosè e lo Shuttle. Riflessione religiosa su una tragedia della modernità
Luigi Giussani

Pubblichiamo l’articolo di don Giussani comparso in prima pagina sul Corriere della Sera il 9 febbraio 2003

Caro direttore,osservando le immagini dello Shuttle che precipita, si impone una domanda: con tutto quel che accade, è giusta la vita? Se non rispondessimo, tutto rimarrebbe nella disperazione, come se la tragedia dello Shuttle capitasse centomila volte in un giorno, lasciando centinaia di milioni di persone disperate. Eppure nella sua ricerca di una risposta che affermi la libertà o la bontà o la giustizia, l’uomo incontra un limite, si scopre limitato per natura, così che tutto sembra senza fiato, e appare impossibile a chiunque compiere una sola azione di vita senza commettere ingiustizie o contraddizioni. Siamo tutti come Mosè, cha aveva accompagnato per centinaia di chilometri i suoi; arrivato al confine di quello che sarebbe diventato poi lo Stato di Israele, dall’alto del monte guarda da lontano la Terra Santa senza poterla toccare, poiché Dio gli aveva detto: «Per punizione del tuo timore, del tuo non avermi reso giustizia, tu morirai prima di giungere nella Terra promessa». Infatti sarà Giosuè a fare entrare le truppe per la conquista. Ecco, noi stessi ogni ora siamo come sul limitare di una terra tanto desiderata quanto irraggiungibile. E per questo la domanda sulla riuscita della vita domina le giornate di chiunque abbia respiro umano. Ora, c’è un’unica spiegazione cha dà ragione di tutto ciò che è accaduto: la croce di Cristo; la Sua morte è la risposta di Dio ai nostri limiti e alle nostre ingiustizie. Ci sarebbe un orizzonte di mancanza di ragione in tutte le cose. Qualsiasi evento capiti non troverebbe mai risposta adeguata, se non ci fosse Cristo: Lui segna l’ultima vittoria di Dio sulla realtà umana; qualsiasi cosa accada, è la «misericordia» che legge tutto ciò che è umano. La misericordia: Dio compie la vittoria sul male dentro la storia come positività, è questo che dà la ragione a ciò che accade. Ma l’uomo non riesce a capire questa spiegazione. L’unica possibile spiegazione perché il danno e il male non siano il segno ultimo della storia. Allora avviene una cosa impossibile, la più impossibile: l’uomo si fa giudice di Dio. Mi mette le vertigini pensare al futuro, a quel che l’uomo può fare se giudica ingiusto Dio per qualcosa che accade e che egli non riesce a comprendere. L’uomo non può. Dio può fare e può permettere quello che vuole (è il mistero di Dio, in cui l’uomo non può entrare se Dio non gli apre la porta) e l’uomo che giudicasse Dio - per pura presunzione - compirebbe il vero cataclisma. La tragedia di Gesù è questa! Invece la morte e il destino di Cristo sono la resurrezione della vita: la vittoria sul male. Chi accetta questo fatto, partecipa della resurrezione della vita. Chi, non comprendendolo, non lo accetta, distrugge il mondo. Ma dire che Cristo «ha vinto» è un’espressione strana per l’uomo e così giungiamo ad essa come ad un’uscita misteriosa, che rimane mistero fin quando il Padre lo vuole, finché il mistero di Dio non si riveli. E quando si rivelerà, sarà la fine, la fine del mondo. Per potere dire: «Ha vinto», l’uomo deve fare una scelta: la scelta che il bene trionfi sul male. La scelta del bene e non l’insistente sottolineatura del male. E questo è innegabile che sia giusto: a priori è giusto, non è una spiegazione che possiamo dare noi, ma qualcosa che riconosciamo. Proprio per questo la storia dell’America ci insegna una positività della vita che è di esempio a tutto il resto del mondo. E ci insegna anche che se manca il senso del tutto, questo fa diventare infinita la possibilità di ribellione e di massacro. Dio, il Signore mi fa giungere alla certezza della fede: che l’amicizia di Dio con me, con l’uomo, non può essere messa in discussione da nulla (fin dall’inizio Dio è venuto in terra scegliendosi un popolo, una nazione prediletta per portare il mondo a un compimento che altrimenti non avrebbe mai avuto). Pensare che poco prima di morire Gesù abbia detto: «Amico!» a Giuda che lo tradiva, è una cosa dell’altro mondo. Dice il Salmo 117: «Lodate il Signore perché è buono, eterna è la Sua misericordia». È una cosa dell’altro mondo. Pensavo in questi giorni a Massimiliano Kolbe, che dice al capo tedesco: «Tu ne devi ammazzare dieci, io ne sostituisco uno che ha figli…». E il tedesco accetta l’offerta. Se Hitler fosse stato lì in quel momento, non avrebbe certo premiato quel capitano… il capitano tedesco aveva applicato un’idea di giustizia che non era quella di Hitler; accettando lo scambio, aveva espresso il sentimento naturale di un uomo che poteva avere figli come il condannato. La Chiesa ha fatto santo padre Kolbe perché ha reso giustizia a se stesso davanti a Dio. Come fu per la Madonna, che per me rimane il vertice di quell’evoluzione dell’io che si chiama santità. Per cui di fronte a qualsiasi disastro o limite, un uomo può affermare con sicurezza che la vita è giusta perché va misteriosamente ma sicuramente verso il suo destino di positività.

lunedì 6 aprile 2009

Lela
canto tradizionale della Galizia

http://www.youtube.com/watch?v=xw_X_r1yt5Q&feature=related

Estàn as nubes chorando
por un amor che morrèu.
Estan as ruas molladas,
de tanto como chovèu.

Lela, Lela, Lelina por quen eu morro
quero mirame nas meninas dos teus ollos.
Non me deixes e ten compassiòn de min
sen tì no podo, sen tì no podo vivir.

Dame alento das tùas palabras,
dame celme do teu corazòn,
dame lume das tùas miradas
dame vida co teu dulce amor.

Lela, Lela, Lelina por quen eu morro
queo mirarme nas meninas dos teus ollos.
Non me deixes e ten compasiòn de min
sen tì no podo, sen tì no podo vivir.

Stanno piangendo le nuvole per un amore che finisce, le strade si bagnano per tutto il mio pianto. /Lela, Lela, Lelina che amo tanto, voglio vedermi riflesso nella luce dei tuoi occhi. Non lasciarmi ed abbi compassione di me, senza te non posso vivere.
Dammi respiro con le tue parole, dammi calore col tuo cuore, dammi luce con il tuo sguardo, dammi vita con il tuo dolce amore. /Lela, Lela, Lelina che amo tanto, voglio vedremi riflesso nella luce dei tuoi occhi. Non lasciarmi ed abbi compassione di me, senza te non posso, non posso vivere.


domenica 5 aprile 2009

IN DIFESA DEL VINO
04.04.2009
Contro i talebani del Parlamento, per salvare questa delizia della creazione, segno della civiltà cristiana. Come dicevano Benedetto XVI e don Giussani…



Pare che i politici abbiano individuato la crociata di cui l’Italia di oggi ha bisogno: quella contro il vino. Sì. Siamo in piena crisi economica, inondati di cocaina (specie nei quartieri alti) e altre sozzerie (nei bassifondi), siamo rincoglioniti dai rumori, dai media, nevrastenici e pieni di ossessioni, ansie e paure, ci riempiamo di psicofarmaci, ma il Nemico è diventato lui: il frutto della vite.
E il Parlamento pare stia per dichiarare guerra al vino. Non ai superalcolici – come qualcuno sostiene – ma proprio al vino perché il tasso alcolico imposto per legge a chi guida l’automobile non è tarato sul superalcolico bevuto al pub o in discoteca, ma sul bicchiere di vino bevuto a cena. Tanto che, dopo aver già fissato un limite estremo come lo 0,5 g/litro, assurdo e proibitivo, ora si sta tentando addirittura di imporre lo 0,2 e il “tasso zero”. Dunque guerra totale al vino. Tolleranza zero.
Poco importa, a questi legislatori, che, secondo le statistiche, gli incidenti stradali provocati da abuso di alcol siano una percentuale piccolissima. Stando ai dati Aci-Istat nel 2007 si sono avuti 230.871 incidenti, con 5.131 morti e 325.850 feriti. Ebbene il 93,5 per cento di tali incidenti sono stati provocati da errori di guida (come il non rispetto della precedenza, la guida distratta e la velocità). La voce “stato psico-fisico alterato del guidatore” incide solo per il 3,1 per cento dei casi e comprende l’assunzione di sostanze stupefacenti, il malore, il sonno e infine l’ebbrezza dal alcol. Ciò significa che appena il 2 per cento dei casi è addebitabile a chi ha alzato troppo il gomito e si tratta quasi sempre di superalcolici e di alcolisti veri e propri, non certo del consumo normale e abituale del vino nel corso dei pasti. Dunque il vino (il vino che fa parte della nostra civiltà e della nostra cultura) è pressoché irrilevante fra le cause di incidenti. E’ insomma innocente. Eppure è proprio contro il vino che si bandisce la crociata. Dimenticando, per fare un esempio, che il 5,5 per cento degli incidenti sono provocati dalle pessime condizioni della strada e il doppio dall’uso del cellulare senza auricolare. Ma questo non suscita impressione nel Palazzo.
Il limite attuale, lo 0,5 g/litro, dicevamo, è già proibitivo. Basta cenare assaggiando due bicchieri di vino e si è fuorilegge. Praticamente, ha lamentato ieri il ministro Zaia, questa norma “ha fatto sparire le ordinazioni al ristorante di vini da dessert e produzioni come le grappe”.
Stando così le cose non si capisce per quale misterioso motivo in Parlamento si sta tentando di portare quel limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo zero assoluto. Perché? Risulta forse agli onorevoli legislatori che lo 0,5 si sia rivelato insufficiente e che siano accaduti una quantità di terribili incidenti provocati da gente che aveva un tasso alcolico nel sangue compreso fra lo 0,5 e lo 0, ovvero gente che a cena aveva bevuto appena un bicchiere di vino? No. E’ una casistica inesistente. Ma allora che senso ha abbassare il limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo 0 assoluto? Nessun senso. E nessuna efficacia. Come il drastico 0,5 non ha avuto alcuna efficacia nella prevenzione degli incidenti, non l’avrà nemmeno il suo inasprimento.
In compenso però assesterà un colpo micidiale alla nostra produzione vitivinicola, già provatissima da queste normative e dalla crisi economica che si sta facendo sentire nel settore. Si deve infatti sapere che l’Italia è fra i maggiori produttori europei e mondiali di vino. Ha un’offerta di altissima qualità con 477 vini Doc e Docg (il settore agricolo, che ha un milione di imprese, produce nel suo insieme un valore di 45 miliardi di euro l’anno, secondo solo al comparto manifatturiero).
La crescita della qualità del vino, a scapito della quantità, in Italia è andata di pari passo con una crescita culturale. Infatti il consumo di vino pro capite è passato dagli antichi 120 litri agli attuali 45. Perché cento anni fa il vino, di qualità bassa, era tracannato, un po’ per stordirsi, così come oggi una gioventù ignara del senso della vita ricorre alle droghe o ai superalcolici o al chiasso delle discoteche per lenire la disperazione e la solitudine.
Oggi invece la nostra gente ha imparato a gustare il vino cercando la qualità del sapore e non la quantità che riempie la pancia. Un giorno sentii dire da un vero maestro di vita, don Luigi Giussani, che il vino non si beve per sete, ma per gusto, per assaporare la bontà della creazione. Infatti è fiorita una vera cultura del vino e un’educazione al gusto. Corsi, guide, enoteche. Degustazioni spesso associate alla musica e alla letteratura. O ai prodotti tipici. Oltretutto la produzione vitivinicola è anche quella che, da secoli, ha dato forma e bellezza alle nostre campagne – penso in particolare alla Toscana – e fa letteralmente parte del paesaggio come le pievi romaniche, i borghi, i casolari e le città turrite. Ha quindi una ricaduta anche nel turismo.
Michele Satta, bravissimo produttore della zona di Bolgheri, che esporta i suoi fantastici vini anche in America, in Cina e in Australia, vede in questa assurda mentalità non solo un suicidio economico, ma anche un suicidio culturale: “si va verso una vera e propria criminalizzazione del vino e del suo consumo. E’ una regressione culturale che azzera millenni di civiltà senza alcun motivo fondato, senza alcuna ragione”.
In effetti di questo passo si rischia di considerare il vino, che è una ricchezza culturale ed economica, alla stregua di un vizio, come il fumo. O peggio alla stregua delle sostanze allucinogene. Si finirà per considerare le nostre belle vigne variopinte quasi come le piantagioni di oppio dell’Aghanistan? Vogliamo sperare proprio di no (il Parlamento ascolti ministro Zaia).
Il vino ha accompagnato letteralmente la civiltà umana, tanto che la Bibbia (Gen. 9, 20-27) fa risalire la scoperta del processo di lavorazione del vino addirittura a Noè. Il nome stesso, “vino”, pare venga dal verbo sanscrito “vena”, che significa “amare” da cui infatti proverrebbe anche il nome latino della dèa dell’amore, Venere. Il vino fa parte della civiltà ebraica, greca e romana e la sua gaia bontà tracima nella letteratura di tutti i tempi.
Ma soprattutto ha assunto un significato sacro nella storia cristiana. Il primo miracolo di Gesù, registrato nei Vangeli, è quello del vino alle nozze di Cana. Il vino è il segno di quella convivialità fraterna e festosa del banchetto a cui Gesù stesso ha paragonato addirittura il segno dei Cieli. Il vino fu poi al centro di quella drammatica “ultima cena” nella quale egli istituì il sacramento della sua presenza tangibile nella storia: “sarò sempre fra voi, fino alla fine dei tempi”. I segni scelti da Gesù furono proprio il vino e il pane, segno del suo darsi in pasto e bevanda agli uomini per abbracciarli, sostenerli, salvarli e divinizzarli.
La millenaria liturgia della Chiesa in qualche modo ha una sua mistica espansione nelle nostre campagne dove in giugno si alterna l’oro dei campi di grano al verde dei filari di vite, come se la terra stessa, fecondata dal lavoro umano, celebrasse l’offerta del cosmo intero a Dio, nei segni eucaristici del pane e del vino.
Benedetto XVI ha detto una volta: “Il vino esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino ‘allieta il cuore’. Così il vino e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell'amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino”.
Devo questa citazione a Michele Satta che peraltro – lavorando nelle terre del Carducci – espone nel suo sito anche i versi del poeta mangiapreti, dimostrando che i filari di vite mettono d’accordo tutti: “Della natura tua, forte e cortese,/l'ombra restò nel memore pensiero,/ come il tuo vino, o mio dolce paese,/ il mio verso fervea gentile e austero”.


Antonio Socci

Da “Libero”, 4 aprile 2009