domenica 29 marzo 2009
















sabato 28 marzo 2009


La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è cosi grande da giustificare la fatica del cammino. La promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza.

Benedetto XVI


Noi diciamo quello che dovrebbe essere o quello che non va e "non si parte dall'affermazione che Cristo ha vinto". Che Cristo ha vinto, che Cristo è risorto, significa che il senso della mia vita e del mondo è presente, è già presente, e il tempo è l'operazione profonda e misteriosa del suo manifestarsi.

Luigi Giussani
A proposito della vicenda del Papa sulla questione dell'AIDS

sabato 21 marzo 2009

PARLA ROSE INFERMIERA UGANDESE

Così l’Uganda sta vincendo la lotta all’Aids senza preservativi “Chi pensa di salvare l’Africa con i preservativi è fuori dal mondo” “Il problema è capire se la vita ha un senso. Solo così posso volere bene a me e a chi ho davanti. E’ allora che lo proteggo, che faccio di tutto perché non si ammali”. Rose Busingye passa la sua vita ad accogliere e curare gli ammalati di Aids assieme all’ong Avsi al Meeting Point di Kampala, la capitale dell’Uganda.

Rose è un’infermiera ugandese, e sa bene di cosa si tratta quando si parla di Africa, Hiv e preservativi. “Il problema è se la vita ha un valore, un significato, altrimenti non c’è preservativo che tenga”. In Uganda dal 1986 sono morte quasi un milione di persone (e più del doppio sono rimaste infettate) per il virus dell’Hiv. L’Uganda è però anche il primo paese del continente nero ad avere attuato una politica vincente nella lotta all’Aids: in pochi anni si è passati dal 21 per cento della popolazione infetta al 6,4 per cento di oggi. “Lo abbiamo fatto – spiega Rose – senza distribuire preservativi a tutti, ma educando le persone. Anche grazie al nostro presidente”.

Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, ha preso di petto la questione dell’Hiv fin da subito: “Ha chiesto di tornare alle nostre origini culturali – continua Rose – ha voluto che si lavorasse per il cambiamento delle persone. Una volta, durante un seminario, si discuteva di come affrontare il dilagare della malattia e la moglie del presidente è andata su tutte le furie quando ha sentito dire che la soluzione erano i profilattici. L’uomo non è come un cane che non riesce a trattenersi, diceva, ha la ragione, può smettere di vivere come un animale”. Così (come racconta anche il libro “Lo sviluppo ha un volto”, a cura di Roberto Fontolan, edito da Guerini) si è cominciato ad andare nei vari villaggi a insegnare, ad esempio, che chi ha una vita sessuale ordinata non rischia di prendere l’Hiv, che l’astinenza e la fedeltà al partner sono fondamentali e che in certi casi particolari è anche opportuno usare il preservativo.

Nulla di diverso dalle parole del Papa: “Se non c’è l’anima, se gli africani non si aiutano, non si può risolvere il flagello con la distribuzione di profilattici: al contrario, il rischio è di aumentare il problema. La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto con le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, a essere con i sofferenti”. Nulla di diverso da quello che racconta Rose: “Non sappiamo amare, viviamo definiti dall’istinto. E quando uno non si sente amato non può amare nessuno, usa se stesso e gli altri. A uno infettato dall’Hiv non interessa nulla proteggere gli altri se non sa che la sua vita ha un valore, un significato. Quelli che attaccano il Papa non sanno cosa dicono”. O forse lo sanno benissimo. “Tu vali più di un preservativo, il bisogno dell’Africa non sono i preservativi. Se lo pensi sei fuori dal mondo”, dice.

Rose incalza: “Qui Non abbiamo medicine, si muore di malaria, di dissenteria. E ci vogliono mandare i preservativi. Ma che coraggio hanno di fronte al mondo di dire che il bisogno dell’Africa è un preservativo?”. Le chiediamo se quindi sia un problema di educazione: “Si educa solo a ciò che si è”, risponde. In altre parole? “Bisogna risvegliare la coscienza dell’uomo: quando uno è voluto bene subito si accorge di quello che vuole, senza bisogno di fargli la lezione. L’uomo è un bisogno infinito di capire cos’è la giustizia, la bellezza, la felicità”. Rose racconta che tante persone che passano dal suo centro magari per un giorno poi non vogliono andarsene: “Se uno incontra anche solo un piccolo occhio che lo guarda per quello che è non può non riconoscere di essere fatto per queste cose. Puoi stare anni a insegnare come si usa il preservativo, ma se si è guardati con dignità basta un secondo per cambiare. Quando gli ammalati sentono che secondo te il loro bisogno è un preservativo se ne vanno, lo sanno che la loro vita è molto più grande. Non è un pezzo di lattice che salverà l’Africa, siamo seri. E in Uganda, dove il presidente si è opposto a questa idea, abbiamo abbattuto il numero di infezioni, tanto che adesso l’Hiv è soprattutto una malattia dei più ricchi, non dei poveri”.

Secondo Rose, il mondo dovrebbe avere il coraggio di parlare dell’origine della malattia, non di come contenere gli effetti di un comportamento di cui la malattia è diretta conseguenza. “E’ la libertà che muove la persona, se uno la usa male non può poi accusare la mancanza dei preservativi. Questo è un modo sbagliato di usare la ragione”. Ciò che impressiona è come le parole di Rose siano gravide di conseguenze nei fatti: al Meeting Point le donne infette dal virus dell’Hiv ballano, cantano, lavorano tutto il giorno; stanno talmente bene che all’inizio nessuno credeva che avessero bisogno di cibo e medicine, e solo dopo avere fatto il test a ognuna di loro si sono ricreduti. Parla di “ideologia”, Rose: “Si pensa che la vita umana sia definita solo dal sesso, ma questa è ideologia, nel senso che è l’esaltazione di un singolo aspetto umano”.

A questo punto racconta di quando ha insegnato alle sue donne come si usano i preservativi: “Abbiamo letto insieme le istruzioni: occorre una temperatura esterna non troppo alta, bisogna lavarsi, stare attenti perché basta un po’ di polvere per romperlo, ecc. Le mie donne mi hanno guardato e mi hanno detto: ‘Rose, quanti gradi ci sono in Africa? Quante case hanno il rubinetto per lavarsi?’. Poi mi hanno fatto vedere le loro mani: ruvide e rovinate dal lavoro nella cava, affilate come un sasso. E se basta un po’ di polvere per rompere il preservativo… Capisci? Non hanno neanche le lenzuola, i letti, l’acqua – ride – E pensano di salvarci con i preservativi!”. Si ferma, torna seria: “Bisogna smetterla di parlare per niente, senza sapere di cosa si sta parlando”. Sia l’opera grandissima in cui lavora Rose a Kampala sia i risultati dell’azione governativa sembrano dare ragione alle parole di questa piccola donna sempre sorridente: “L’uomo è fatto per essere amato e per amare, e ha la libertà. La sua soddisfazione totale non è nel sesso. In Uganda abbiamo combattuto senza preservativi ma per il cambiamento delle persone”.

Astinenza e fedeltà le parole d’ordine. Sembra impossibile al mondo laico del Vecchio continente. E invece sembra essere l’unica via per combattere con successo questa piaga. Ma una cosa del genere è possibile solo là dove c’è la chiesa? “Sì – dice Rose – perché chi riconosce che l’umano ha un valore è la chiesa”. Il presidente ugandese non è cristiano, però. “No, ma è un uomo”. Il viaggio del Papa in Africa ha scatenato l’ennesimo dibattito sull’opera della chiesa in quelle terre: “Qua tutti sanno che Benedetto XVI ci vuole bene, non abbiamo dubbi. I dubbi piuttosto ce li abbiamo su chi ci manda i preservativi invece dell’aspirina. Su chi riconosce che siamo esseri umani non abbiamo dubbi”. Rose ha perso tutti i parenti nel genocidio in Ruanda: “Dov’erano quelli che vogliono salvarci con i preservativi? Cos’è un preservativo di fronte ai morti che ho visto in Ruanda? Ammettano che sono loro gli sconfitti invece di volere salvare noi. Forse pensano che non lo capiamo, ma anche noi africani abbiamo il cervello, sappiamo usare la ragione”. Quegli stessi accusano il Papa di attentato alla vita dell’Africa: “Non ha senso attaccare una persona disarmata che ama così tanto la vita della gente”.

lunedì 23 marzo 2009

«Una misericordia che ci sfida»
Julián Carrón

Avvenire, 14 marzo 2009

La prima cosa che colpisce è il fatto che il Papa abbia sentito il bisogno di scrivere una lettera così: piena di dolore davanti all’incomprensione non tanto degli estranei, quanto dei cattolici. Caso insolito nella storia recente, da quanto ricordi, e segno del fatto che non capiamo un gesto che, come dimostra la lettera, è pieno di ragionevolezza.
Nella sua semplicità, è stato un gesto di misericordia per una parte di fedeli affidati alla sua paternità di pastore universale della Chiesa, che acquista tutta la sua portata davanti agli irrigidimenti di coloro che lo criticano, inclusi quelli a cui era rivolto. Questo gesto pone davanti a tutti lo scandalo cristiano. È difficile, infatti, che leggendo la lettera non vengano alla mente le parole di Gesù: «Beato colui che non si scandalizza di me», rivolte a chi si arrabbiava perché mangiava coi pubblicani e i peccatori. La misericordia, gesto inequivocabile del divino, continua a scandalizzare come il primo giorno. Peccato che questo succeda anche tra chi appartiene al popolo dei redenti, vale a dire, tra chi per primo è stato oggetto di una sconfinata misericordia.
Diversamente da quanti pensano che Benedetto XVI confermi i destinatari nella loro posizione, il suo gesto costituisce la sfida più grande davanti alla quale si siano mai trovati. Soltanto la misericordia sfida come nessun altro richiamo la nostra testardaggine. A chi molto viene perdonato, molto ama, dice Gesù. A nessun altro gesto è sensibile l’uomo come alla misericordia, tanto è vero che è stato il metodo di Gesù, come ci ricorda San Paolo: «Quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Quella del Papa è una risposta alla «priorità che sta al di sopra di tutte, rendere Dio presente in questo mondo», un Dio incarnato il cui nome è “misericordia”, che si manifesta attraverso «l’unità dei credenti».
Questa lettera ha un “respiro” di cui non possiamo non ringraziare il Papa, tanto più quanto più aumentano gli irrigidimenti di coloro che riducono la vita cristiana a un moralismo soffocante. Niente più di una lettera così mi fa sentire orgoglioso della mia appartenenza ecclesiale, pieno di fiducia che il giorno in cui io dovessi sbagliare sarei trattato con altrettanta misericordia.


Julián Carrón
LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVIAI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICADEI 4 VESCOVI CONSACRATI DALL'ARCIVESCOVO LEFEBVRE

Cari Confratelli nel ministero episcopale!La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu … conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermoVostro nel SignoreBENEDETTO PP. XVI Dal Vaticano, 10 Marzo 2009

lunedì 16 marzo 2009

La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l'incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l'erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

Chesterton, Eretici

venerdì 13 marzo 2009

da Tracce N.3, Marzo 2009
"Dostoevskij e i colpi della speranza"
intervista a Tat’jana Kasatkina

Giovanna Parravicini

[...]
C’è un’immagine che rappresenti la nostra epoca e le sue false speranze?
Pensi alla giovane Liza (nei Fratelli Karamazov) che si immagina di crocifiggere un bambino innocente e mentre questi muore fra i tormenti lei gli sta davanti mangiando il suo dolce preferito, la marmellata d’ananas. Rispetto a questa scena la critica generalmente grida al mostro, al pervertito; in realtà - se ci pensiamo bene - quella è la nostra raffigurazione, è l’immagine del mondo cristiano che, davanti a Cristo bruciante d’amore e di dolore, non trova di meglio da chiedergli se non la “marmellata d’ananas”, le mille cose futili e meschine in cui quotidianamente riponiamo la nostra speranza. Ma - ed è proprio qui la grandezza, la “positività” di Dostoevskij - da questo abisso di male Cristo ci fa risorgere attraverso l’evidenza che noi, che abbiamo rifiutato Dio, siamo delle anime affamate, assetate, che nessuna marmellata d’ananas può saziare. Niente può bastare all’uomo se non Dio stesso, un Dio che spera in noi ed è sempre qui ad attenderci.
Pensi alla giovane Liza (nei Fratelli Karamazov) che si immagina di crocifiggere un bambino innocente e mentre questi muore fra i tormenti lei gli sta davanti mangiando il suo dolce preferito, la marmellata d’ananas. Rispetto a questa scena la critica generalmente grida al mostro, al pervertito; in realtà - se ci pensiamo bene - quella è la nostra raffigurazione, è l’immagine del mondo cristiano che, davanti a Cristo bruciante d’amore e di dolore, non trova di meglio da chiedergli se non la “marmellata d’ananas”, le mille cose futili e meschine in cui quotidianamente riponiamo la nostra speranza. Ma - ed è proprio qui la grandezza, la “positività” di Dostoevskij - da questo abisso di male Cristo ci fa risorgere attraverso l’evidenza che noi, che abbiamo rifiutato Dio, siamo delle anime affamate, assetate, che nessuna marmellata d’ananas può saziare. Niente può bastare all’uomo se non Dio stesso, un Dio che spera in noi ed è sempre qui ad attenderci.

tutto l'articolo: http://www.tracce.it/default.asp?id=266&id2=285&id_n=9475

sabato 7 marzo 2009

«Alla sola Bellezza toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più amabile delle idee».
Platone, Fedro

martedì 3 marzo 2009

Da Miguel Manara di O. Milosz

DON MIGUEL: in me nacque presto il desidero di inseguire ciò che voi non conoscerete mai: l'amore immenso, tenebroso e dolce. Più di una volta credetti di averlo afferrato: e non era che un fantasma di fiamma. L'abbracciavo, gli giuravo eterna tenerezza, esso mi bruciava tra le labbra e mi copriva il capo con la mia stessa cenere, e, quando riaprivo gli occhi, c'era il giorno orrendo della solitudine, il lungo, così lungo giorno della solitudine, con un povero cuore tra le mani, un povero, povero, dolce cuore leggero come il passerotto d'nverno. E una sera, la lussuria dall'occhio vile, dalla fronte bassa, sedette sul mio giaciglio, e mi contemplò in silenzio, come si guardano i morti.
Una bellezza nuova, un nuovo dolore,un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo, e nulla di più.
Ah! Come colmarlo, quest'abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. è come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale!

[...]

GEROLAMA: Si può benissimo amare, in questo mondo in cui siamo, senza aver subito voglia di uccidere il proprio caro amore, o di imprigionarlo tra i vetri, oppure (come si fa con gli uccelli) in una gabbia in cui l'acqua non ha più sapore d'acqua e i semi d'estate non hanno più sapore di semi.

[...]

L'ABATE: L'amore e la precipitazione non vanno d'accordo, Manara. è dalla pazienza che si misura l'amore. Un passo uguale e sicuro: è questa l'andatura dell'amore, che cammini tra due siepi di gelsomino, al braccio di una fanciulla, o da solo tra due file di tombe. Pazienza. [...] Perché il cilicio bruciante non ama la violenza che spenge il prurito nel sangue, e bisogna starsene ben cheti in una bara stretta e corta, nel caso che ci si rannicchi dentro col sano desiderio di dormire un'ora o due di un sonno vuoto e profondo come l'istante.
Far scorrere il proprio sangue è una cose dolcemente perfida; e l'insonnia consuma il cuore. [...]
Figlio mio! l'uomo ha gridato infinite volte, non prosternato, ma ritto davanti a Dio! Alitandogli il suo amore in pieno volto, come un incendio in una foresta o in una grande città, e il Signore rideva perché gli Angeli avevano paura. Tutto questo può ben venire un giorno, caro figliolo, quando il serpente avrà cambiato la pelle. Ma bisogna cominciare dal principio: questo è l'essenziale.

[...]

IL FRATE GIARDINIERE: Adesso, sono in mezzo i vivi come il ramo nudo il cui secco rumore fa paura al vento della sera. Ma il mio cuore è gioioso come il nido che ricorda e come la terra che spera sotto la neve. Perché so che tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il Cielo ne sia lodato!) non è la nostra.

domenica 1 marzo 2009

da IL PICCOLO PRINCIPE
cap 9
Io credo che egli approfitto, per venirsene via, di una migrazione di uccelli selvatici. Il mattino della partenza mise bene in ordine il suo pianeta. Spazzo accuratamente il camino dei suoi vulcani in attivita. Possedeva due vulcani in attivita.
Ed era molto comodo per far scaldare la colazione del mattino. E possedeva anche un vulcano spento. Ma, come lui diceva, "non si sa mai" e cosi spazzo anche il camino del vulcano spento. Se i camini sono ben puliti, bruciano piano piano, regolarmente, senza eruzioni. Le eruzioni vulcaniche sono come gli scoppi nei caminetti. E' evidente che sulla nostra terra noi siamo troppo piccoli per poter spazzare il camino dei nostri vulcani ed e per questo che ci danno tanti guai.
Il piccolo principe strappo anche con una certa malinconia gli ultimi germogli di baobab. Credeva di non ritornare piu. Ma tutti quei lavori consueti gli sembravano, quel mattino, estremamente dolci. E quando innaffio per l'ultima volta il suo fiore, e si preparo a metterlo al riparo sotto la campana di vetro, scopri che aveva una gran voglia di piangere.
"Addio", disse al fiore.
Ma il fiore non rispose.
"Addio", ripeté.
Il fiore tossi. Ma non era perché fosse raffreddato.
"Sono stato uno sciocco", disse finalmente, "scusami, e cerca di essere felice".
Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri. Ne rimase sconcertato, con la campana di vetro per aria. Non capiva quella calma dolcezza.
"Ma si, ti voglio bene", disse il fiore, "e tu non l'hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice. Lascia questa campana di vetro, non la voglio piu".
"Ma il vento"
"Non sono cosi raffreddato. L'aria fresca della notte mi fara bene. Sono un fiore".
"Ma le bestie"
"Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle, sembra che siano cosi belle. Se no chi verra a farmi visita? Tu sarai lontano e delle grosse bestie non ho paura. Ho i miei artigli".
E mostrava ingenuamente le sue quattro spine. Poi continuo:
"Non indugiare cosi, e irritante. Hai deciso di partire e allora vattene".
Perché non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore cosi orgoglioso.


cap20
Ma capito che il piccolo principe avendo camminato a lungo attraverso le sabbie, le rocce e le nevi, scoperse alla fine una strada. E tutte le strade portavano verso gli uomini.
"Buon giorno", disse.
Era un giardino fiorito di rose.
"Buon giorno", dissero le rose.

Il piccolo principe le guardo.
Assomigliavano tutte al suo fiore.
"Chi siete?" domando loro stupefatto il piccolo principe.
"Siamo delle rose", dissero le rose.
"Ah!" fece il piccolo principe.
E si senti molto infelice. Il suo fiore gli aveva raccontato che era il solo della sua specie in tutto l'universo. Ed ecco che ce n'erano cinquemila, tutte simili, in un solo giardino.
"Sarebbe molto contrariato", si disse, "se vedesse questo… Farebbe del gran tossire e fingerebbe di morire per sfuggire al ridicolo. Ed io dovrei far mostra di curarlo, perché se no, per umiliarmi, si lascerebbe veramente morire…"E si disse ancora: "Mi credevo ricco di un fiore unico al mondo, e non possiedo che una qualsiasi rosa. Lei e i miei tre vulcani che mi arrivano alle ginocchia, e di cui l'uno, forse, spento per sempre, non fanno di me un principe molto importante…"
E, seduto nell'erba, piangeva.

cap21
In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui", disse la voce, "sotto al melo…"
"Chi sei?" domando il piccolo principe, "sei molto carino…"
"Sono una volpe", disse la volpe.
"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono cosi triste…"
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! scusa", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire "addomesticare"?"
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe. "Che cosa vuol dire "addomesticare"?"
"Gli uomini", disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E molto noioso! Allevano anche delle galline. E il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"
"No", disse il piccolo principe. "Cerco amici. Che cosa vuole dire "addomesticare"?"
"E una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"…"
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro per te unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C’e un fiore… credo che mi abbia addomesticato…"
"Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C’e un fiore… credo che mi abbia addomesticato…"
"E possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra…"
"Oh! Non e sulla Terra", disse il piccolo principe.
La volpe sembro perplessa:
"Su un altro pianeta?"
"Si".
"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
"No".
"Questo mi interessa! E delle galline?"
"No".
"Non c’e niente di perfetto", sospiro la volpe.
Ma la volpe ritorno alla sua idea:
"La mia vita e monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara come illuminata. Conoscero un rumore di passi che sara diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sara meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e dorato, mi fara pensare a te. E amero il rumore del vento nel grano…"
La volpe tacque e guardo a lungo il piccolo principe:
"Per favore… addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, pero. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno piu tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose gia fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piu amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
"Che bisogna fare?" domando il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, cosi, nell’erba. Io ti guardero con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ piu vicino…"
Il piccolo principe ritorno l’indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincero ad essere felice. Col passare dell’ora aumentera la mia felicita. Quando saranno le quattro incomincero ad agitarmi e ad inquietarmi; scopriro il prezzo della felicita! Ma se tu vieni non si sa quando, io non sapro mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti".
"Che cos’e un rito?" disse il piccolo principe .
"Anche questa e una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "E quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’e un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi e un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza".
Cosi il piccolo principe addomestico la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "… piangero".
"La colpa e tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…"
"E vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"E certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
Poi aggiunse:
"Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua rosa e unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalero un segreto".
Il piccolo principe se ne ando a rivedere le rose.
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto un mio amico e ora e per me unica al mondo".
Le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si puo morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi assomigli, ma lei, lei sola, e piu importante di tutte voi, perché e lei che ho innaffiata. Perché e lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché e lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo i due o tre perle farfalle). Perché e lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché e la mia rosa".
E ritorno dalla volpe.
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale e invisibile agli occhi".
"L’essenziale e invisibile agli occhi", ripeté il piccolo principe , per ricordarselo.
"E il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi importante".
"E il tempo che ho perduto perla mia rosa…" sussurro il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verita. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…"
"Io sono responsabile della mia rosa…" ripeté il piccolo principe per ricordarselo.




il piccolo principe

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