lunedì 27 aprile 2009

«Donna non piangere»
di Luigi Giussani
Quella sera Gesù fu interrotto, fermato nel suo cammino al villaggio cui era destinato, cui si era destinato, perché c’era un pianto altissimo di donna, con un grido di dolore che percuoteva il cuore di tutti i presenti, ma che percuoteva, che ha percosso innanzitutto il cuore di Cristo. «Donna, non piangere!». Mai vista, mai conosciuta prima. «Donna, non piangere!». Che sostegno poteva avere quella donna che ascoltava la parola che Gesù diceva a lei? «Donna, non piangere!»: quando si rientra in casa, quando si va sul tram, quando si sale sul treno, quando si vede la coda delle automobili per le strade, quando si pensa a tutta la farragine di cose che interessano la vita di milioni e milioni di uomini, centinaia di milioni di uomini… Come è decisivo lo sguardo che un bambino o un grande «grande» avrebbero portato a quell’uomo, che veniva in capo a un gruppetto di amici e non aveva mai visto quella donna, ma si è fermato quando il suono, il riverbero del pianto è giunto fino a Lui! «Donna, non piangere!», come se nessuno la conoscesse, come se nessuno la riconoscesse più intensamente, più totalmente, più decisivamente di Lui! «Donna, non piangere!». Quando vediamo – come vi ho detto prima – tutto il movimento del mondo, nel cui fiume, nei cui ruscelli tutti gli uomini si rendono presenti alla vita, rendono presente la vita a sé, l’incognita della fine non è altro che l’incognita del come si è giunti a questa novità, quella novità che fa trovare un uomo, fa incontrare un uomo mai visto che, di fronte al dolore della donna che vede per la prima volta, le dice: «Donna, non piangere!». «Donna, non piangere!». «Donna, non piangere!»: questo è il cuore con cui noi siamo messi davanti allo sguardo e davanti alla tristezza, davanti al dolore di tutta la gente con cui entriamo in rapporto, per la strada o nel viaggio, nei nostri viaggi. «Donna, non piangere!». Che cosa inimmaginabile è che Dio – “Dio”, Colui che fa tutto il mondo in questo momento –, vedendo e ascoltando l’uomo, possa dire: «Uomo, non piangere!», «Tu, non piangere!», «Non piangere, perché non è per la morte, ma per la vita che ti ho fatto! Io ti ho messo al mondo e ti ho messo in una compagnia grande di gente!». Uomo, donna, ragazzo, ragazza, tu, voi, non piangete! Non piangete! C’è uno sguardo e un cuore che vi penetra fino nel midollo delle ossa e vi ama fin nel vostro destino, uno sguardo e un cuore che nessuno può fuorviare, nessuno può rendere incapace di dire quel che pensa e quel che sente, nessuno può rendere impotente! «Gloria Dei vivens homo». La gloria di Dio, la grandezza di Colui che fa le stelle del cielo, che mette nel mare goccia a goccia tutto l’azzurro che lo definisce, è l’uomo che vive. Non c’è nulla che possa sospendere quell’impeto immediato di amore, di attaccamento, di stima, di speranza. Perché è diventato speranza per ognuno che Lo ha visto, che ha sentito: «Donna, non piangere!», che ha udito Gesù dir così: «Donna, non piangere!». Non c’è nulla che possa fermare la sicurezza di un destino misterioso e buono! Noi siamo insieme dicendoci: «Tu, non t’ho mai visto, non so chi sei: non piangere!». Perché il pianto è il tuo destino, sembra essere il tuo destino inevitabile: «Uomo, non piangere!». «Gloria Dei vivens homo»: la gloria di Dio – quella per cui sorregge il mondo, l’universo – è l’uomo che vive, ogni uomo che vive: l’uomo che vive, la donna che piange, la donna che sorride, il bambino, la donna che muore madre. «Gloria Dei vivens homo». Noi vogliamo questo e nient’altro che questo, che la gloria di Dio sia palesata a tutto il mondo e tocchi tutti gli ambiti della terra: le foglie, tutte le foglie dei fiori e tutti i cuori degli uomini. Non ci siamo mai visti, ma questo è ciò che vediamo tra noi, ciò che sentiamo tra noi.

sabato 18 aprile 2009

Parsifal (Canzone dell'ideale)
Claudio Chieff0

Parsifal, Parsifal non ti fermare
e lascia sempre che sia

la voce unica dell’Ideale
ad indicarti la via.
Sarò con te

io ti ho messo una mano sul cuore

Non fermarti alla corte delle anime nane
che ripetono i gesti e non sanno capire
non salire al castello dei giovani giusti
che adorano il sole:
è quel sole lo specchio di chi non si vuole vedere.


Parsifal, Parsifal devi lottare
devi cercare dov’è

il punto fermo tra le onde del mare
e quest'isola c’è.
Sarò con te

io ti ho messo una mano sul cuore

Io sapevo da sempre che avresti tradito
mille volte in un giorno

e poi mille altre ancora,
ma i tuoi occhi che cercano

son gli occhi di chi si sorprende ferito
e il mio braccio è più forte del male
più grande dell’ora.


Parsifal, Parsifal non ti fermare
e lascia dunque che sia
la voce unica dell'ideale
ad indicarti la via.
Sarò con te
io ti ho messo una mano sul cuore
sarò con te
come un fuoco che dentro non muore.

venerdì 17 aprile 2009

QUELLO CHE NESSUNO DICE SU TERREMOTO E CRISI ECONOMICA
di Antonio Socci

Pare che un giornalista inviato in Abruzzo se ne sia uscito con un lapsus memorabile: “Finalmente all’Aquila qualcosa si muove”. Anche più di qualcosa.
Di certo il terremoto è arrivato anche nelle coscienze: degli abruzzesi e di tutti noi. Ma intellettuali e giornalisti hanno la malattia sessantottina: quel “tutto è politica” che acceca e induce a ridurre sempre tutto alla polemica politica e sociale, come se il terremoto fosse colpa del governo. Perdendo di vista le questioni di fondo, le grandi domande sul senso della vita, ritenute, marxianamente, “sovrastruttura”.


Come insegna il Leopardi dello “sterminator Vesuvio”, la vera saggezza sta anzitutto nel riconoscere quello smarrimento, quella fragilità della nostra esistenza e la precarietà delle cose più solide su cui investiamo (il mitico “mattone”). Fragilità e mortalità che è la nostra vera condizione, sempre, pure senza terremoti: è la realtà che non vogliamo vedere.

L’invito di Gesù a costruire la propria casa sulla Roccia anziché sulla sabbia non era relativo al regolamento edilizio e alle tecniche architettoniche (anche se – considerati i fatti – andrebbe preso alla lettera pure in quel senso). Ma era una esortazione a fondare la propria vita sulla Roccia che nessuno può spazzar via o demolire: lui stesso. Capace di vincere perfino la morte e dunque di restituirci per sempre tutti coloro che abbiamo amato e perduto. Questa è l’unica novità, ha gridato il Papa a Pasqua e ritrovare coloro che ci sono stati strappati sarà una festa senza fine.

Anche la recente esplosione della crisi finanziaria ed economica aveva prodotto lo stesso senso di insicurezza e lo stesso smarrimento. E Benedetto XVI aveva ricordato che l’unico “investimento” che non va incontro a crolli, fregature e delusioni, ma frutta sempre un capitale infinito, è quello fatto da coloro che seguirono Gesù che ricevettero e ricevono quaggiù il centuplo di quello che avevano investito e poi la vita eterna.

Pure Lucia Annunziata ieri sulla “Stampa” ha messo in relazione il senso di insicurezza prodotta dal terremoto con quello analogo derivato dal crollo delle Borse e dalla crisi. Scrive: “Il tremito che ha scosso l’Abruzzo… è stato nel nostro paese un momento quasi catartico di risveglio: la materializzazione dello sfascio, della fragilità, della insicurezza su cui poggiano i nostri piedi, è stata la stessa che la crisi economica filtra nella nostra coscienza. Il tremore della terra è diventato il segno di tempi più duri per tutti”.

Poi l’Annunziata ha citato l’economista francese Jean-Paul Fitoussi che sente aria di rivolta popolare per la crisi e annuncia: “le fondamenta della democrazia sono in pericolo”. Ecco il problema: le fondamenta. Noi che sappiamo renderci conto che le case hanno bisogno di fondamenta stabili per non crollare al terremoto non sappiamo accorgerci che anche la nostra vita, la democrazia e la nostra civiltà hanno bisogno di fondamenta certe e stabili. E non sappiamo interrogarci su quali esse siano. Un albero senza radici muore e crolla. Quali sono le nostre radici?

Qualche anno fa i cinesi si sono posti il problema di capire quali fossero stati le radici del grande sviluppo e del grande benessere che, nel corso dei secoli, è fiorito in Occidente e che è dilagato poi in tutto il mondo. I cinesi hanno interpellato gli esperti e l’Accademia delle scienze sociali della Repubblica popolare cinese, sebbene comunista, nel 2002 è arrivata a queste clamorose conclusioni: “Una delle cose che ci è stato chiesto di indagare era che cosa spiegasse il successo, anzi, la superiorità dell’Occidente su tutto il mondo. Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale.

Inizialmente abbiamo pensato che la causa fosse che avevate cannoni più potenti dei nostri. Poi abbiamo pensato che fosse perché avevate il sistema politico migliore. Poi ci siamo concentrati sul vostro sistema economico. Ma negli ultimi vent’anni abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla politica democratica. Su questo non abbiamo alcun dubbio”.

La controprova è evidente: quando l’Europa ha violentemente abbandonato il cristianesimo, con le ideologie anticristiane del XX secolo, ha segato il ramo su cui stava seduta e si è buttata nel baratro e nella rovina. La stessa attuale crisi finanziaria ha ragioni morali, è stata provocata dalla secolarizzazione cioè dalla sostituzione di una vera moralità con la religione del profitto ad ogni costo, la religione del pescecane: Usura, Lussuria e Potere.

Tutto questo dovrebbe far riflettere l’establishment che domina i media, sempre così animato da ostilità anticristiana. Dovrebbe riflettere chi indica come traguardi di civiltà quelle battaglie radicali che spazzano via i valori umani insegnatici dal cristianesimo (la sacralità della vita, la famiglia naturale, la sessualità fra uomo e donna). E anche coloro che di fronte al terremoto non hanno trovato di meglio che proporre di sottrarre alla Chiesa le offerte ad essa devolute dagli italiani con l’otto per mille. Sono così tanti nel nostro sistema gli sperperi, i ladrocini e le regalìe che se vogliamo trovare i fondi per la ricostruzione davvero non manca dove cercarli. Evitando di assestare un colpo sulla Chiesa, dopo che il terremoto lo ha assestato sulle “99 chiese” dell’Aquila. Anche perché il sistema dell’otto per mille e prima della congrua è nato come parziale risarcimento dei colossali espropri compiuti contro la Chiesa dallo stato risorgimentale. La Chiesa, prima dell’enorme confisca, viveva tranquillamente con quei fondi e quelle proprietà che nel corso dei secoli le erano state donate dai suoi figli. Essa è un mare, diceva il Manzoni, che redistribuisce ciò che i fiumi gli portano.

Da ricostruire dunque non è solo l’Aquila, ma la nostra stessa civiltà e anche un sistema economico più corretto. Ma si può costruire solo sul fondamento saldo della nostra storia. L’albero può crescere solo se ha radici profonde. E le case se c’è una chiesa.

Nella seconda guerra mondiale Londra fu distrutta dai bombardamenti tedeschi. Nel dopoguerra, il grande poeta Thomas S. Eliot, per raccogliere fondi per la ricostruzione delle chiese, scrisse una delle sue opere più straordinarie, “La Roccia”, che è la metafora di Cristo e di San Pietro. In quel poema Eliot s’interrogava proprio sul senso del tempo, sul male nella storia, sul fluire delle cose, sulla stabilità delle case e sulla costruzione della città umana. Dove c’è sempre qualcuno che dice: possiamo fare a meno della Chiesa. E dove tutto frana se il cristianesimo è sostituito dalla nuova religione fondata su “Usura, Lussuria e Potere”.

Il suo Canto dei Costruttori dice: “Le braccia si tenderanno/ Con dita non piegate/ mentre le voci discuteranno/ Di denaro speso male/ e il letto senza coperta/ e la grata senza fuoco/ e il lume non alimentato?/ Fino a quando attenderemo? Una Chiesa per noi tutti e lavoro per ognuno/ e il mondo di Dio per tutti noi fino a quando esso durerà”.

Anche la bella e significativa iniziativa di Libero (la ricostruzione dell’oratorio Don Bosco dell’Aquila) si può spiegare con i versi di Eliot: “costruiremo l’inizio e la fine di questa strada/ Noi costruiamo il senso”. Da giovane ho partecipato, con i campi di Comunione e liberazione, sia al soccorso del Friuli che a quello per l’Irpinia. Dove leggevamo questo bellissimo poema di Eliot, su cui dovremmo riflettere anche oggi che le fluttuazioni della City londinese o newyorkese che vollero fare a meno della Chiesa e dai suoi valori morali, come intuiva il poeta, rischiano di portare alla rovina della città.

Da “Libero” 15 aprile 2009

domenica 12 aprile 2009

Ritorna la Pasqua
di Massimo Camisasca
08/04/2009

La Chiesa ci fa rivivere ogni anno tutti i misteri della vita di Cristo. Sa benissimo che noi abbiamo bisogno di molto tempo per entrare dentro i fatti, che siamo spesso distratti proprio di fronte alle cose più importanti, che siamo sopraffatti dai nostri pensieri, preoccupazioni, e anche dalle nostre passioni. Per questo ritorna la Pasqua. Per aiutarci ad entrare in un avvenimento che in realtà non riguarda soltanto alcuni giorni dell’anno, ma tutta la nostra vita. Che cosa è la Pasqua? è la resurrezione di Gesù. I giorni della passione, infatti, conducono lì. Senza resurrezione la passione sarebbe stata soltanto l’altissimo e spropositato gesto di condivisione del nostro male, compiuta dall’uomo più buono della terra. è soltanto la resurrezione che illumina tutto di una luce nuova e assolutamente originale. Colui che è stato morto è ora vivo, e vive per sempre. La resurrezione di Gesù inaugura dunque la sua contemporaneità ad ogni istante della nostra vita. Non siamo più soli. Anche le presenze degli uomini, che tante volte sembrano lasciare intatta la nostra solitudine, nella prospettiva della resurrezione acquistano una luce e una forza nuova. Perché il risorto è Gesù di Nazareth, che obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte di croce, in grazia proprio di questa sua obbedienza, è stato restituito alla vita, alla vita che non finisce, perché è la vita di Dio.Non siamo più soli nel mondo. Questo è il grande annuncio della Pasqua. Esso si manifesta dentro di noi innanzitutto come capacità di uno sguardo nuovo. In certe giornate sembra che tutto vada storto, che ci sia soltanto il male, che le gelosie e le rivalità degli altri non facciano altro che schiacciarci… Può anche essere così, qualche volta. Ma queste giornate nere sono spesso il frutto della nostra chiusura di fronte alla presenza operante di Dio. Non sappiamo più vedere i segni della sua azione. La Pasqua invece inaugura nella nostra vita una nuova capacità di vedere. Dobbiamo innanzitutto chiederci: perché queste persone accanto a me? Perché mio marito, mia moglie, i miei figli, i miei amici? Prendiamo sul serio l’ipotesi che siano stati messi al nostro fianco proprio da Dio per aiutarci a camminare verso di lui. E i doni che abbiamo ricevuto, li ricordiamo ancora? La vita, la fede, l’incontro con coloro che ci hanno permesso di crescere, di diventare adulti, per molti di noi l’incontro con don Giussani e con il Movimento, le occasioni che Dio ci ha dato per incontrarlo nei piccoli, nei poveri, nei più semplici, e infine in tutti coloro che in un modo o in un altro ci hanno provocato a rompere lo schermo dell’abitudine.La vita è fatta di incontri. Anche questi giorni di passione e di luce ce lo hanno testimoniato. L’incontro con Gesù ha cambiato la vita di tanti. Pensiamo alla Veronica, al Cireneo, al ladrone pentito, al centurione. Ma anche a Barabba, a Pilato, Giuseppe d’Arimatea, e dopo la resurrezione, la Maddalena, Pietro, Giovanni, i discepoli di Emmaus.L’incontro con Gesù non li ha lasciati più come prima. Grandi romanzieri di tutti i tempi hanno cercato di immaginare cosa sia successo loro. Sono nate le opere letterarie sulla Veronica, su Barabba, su Disma. Lo stesso può succedere a noi. Non certo di diventare protagonisti di un romanzo, ma qualcosa di molto più importante: di diventare protagonisti della storia di Gesù. Attraverso la resurrezione, attraverso il dono del suo spirito, Gesù lega a sé la nostra vita. Istante dopo istante, quello che viviamo non ha più soltanto il senso comune del susseguirsi dei momenti. è una vita per lui, donata a lui, è una domanda di conoscerlo, di vederlo, è una domanda che il nostro cuore sia cambiato per potere amare gli altri come lui li ha amati. Lo ha scritto bene san Paolo in una lettera ai cristiani di Corinto: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro. Se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». (2Cor 5,15-17)

sabato 11 aprile 2009

IL PORTICO DEL MISTERO DELLA SECONDA VIRTÙ
da: Ch. Péguy, IMisteri, Milano, Jaca Book 1991.)

Gesù Cristo, bambina, non è venuto per dirci frivolezze,
Capisci, non ha fatto il viaggio di venire sulla terra,
Un grande viaggio, detto tra di noi,
(E stava così bene là dove era).
(Prima di venire

Non aveva tutte le nostre preoccupazioni),
Non ha fatto il viaggio di scendere sulla terra
Per venire a contarci indovinelli
E barzellette.
Non c’è il tempo di divertirsi.
Lui non ha messo, non ha impiegato, non ha speso
I trentatré anni della sua vita terrestre,
Della sua vita carnale,
I trent’anni della sua vita privata,
I tre anni della sua vita pubblica,
I tre giorni della sua passione e della sua morte,
(E nel limbo i tre giorni del suo sepolcro).
Non ha messo, non ha impiegato, non ha speso tutto questo,
I suoi trent’anni di lavoro e i
suoi tre anni di predicazione e i suoi tre giorni di passione e di morte,
I suoi trentatré anni di preghiera,
La sua incarnazione, che è propriamente il suo incarnamento,
La sua messa in carne e in carnale, la sua messa in uomo e
La sua messa in croce e la sua messa nella tomba,
La sua messa nel carnale e il suo supplizio,
La sua vita d’uomo e la sua vita d’operaio e la sua vita di prete
e la sua vita di santo e la sua vita di martire,
La sua vita di fedele, La sua vita di Gesù,
Per venire in seguito (nello stesso tempo) a contarci frottole.
Non ha messo, non ha impiegato, non ha speso tutto questo.
Non ha fatto tutta questa spesa
Considerevole
Per venire a darci, per darci in seguito
Degli indovinelli
Da indovinare
Come uno stregone.
Facendo il furbo.
No, no, bambina e Gesù non ci ha neanche dato delle parole morte
Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole
(O in grandi). E che dobbiamo conservare in olio rancido
Come le mummie d’Egitto.
Gesù Cristo, bambina, non ci dà delle conserve di parole
Da conservare,
Ma ci ha dato delle parole vive
Da nutrire.
Ego sum via, veritas et vita,
Io sono la via, la verità e la vita.
Le parole di (della) vita, le parole vive non si possono conservare che vive,
Nutrire vive,
Nutrite, portate, scaldate, calde in un cuore vivo.
Per nulla conservate ammuffite in piccole scatole di legno o di cartone.
Come Gesù ha preso, è stato costretto a prendere corpo, a rivestire la carne
Per pronunciare queste parole (carnali) e per farle intendere,
Per poterle comunicare,
Così noi, ugualmente noi, a imitazione di Gesù,
Così noi, che siamo carne, dobbiamo approfittarne,
Approfittare del fatto che siamo carnali per conservarle, per scaldarle, per nutrirle in noi vive e carnali,
(Ecco ciò che gli angeli stessi non conoscono, bambina, ecco cosa non hanno provato)
Come una madre carnale nutre, e fomenta sul suo cuore il suo ultimo nato,
Il suo lattante carnale, sui suo seno,
Ben posato nella piega del suo braccio,
Così, approfittando del fatto che siamo carnali,
Dobbiamo nutrire, abbiamo da nutrire nel nostro cuore,
Con la nostra carne e col nostro sangue,
Col nostro cuore,
Le Parole carnali,
Le Parole eterne, temporalmente, carnalmente pronunciate.
Miracolo dei miracoli, bambina, mistero dei misteri.
Perché Gesù Cristo è divenuto nostro fratello carnale
Perché ha pronunciato temporalmente e carnalmente le parole eterne,
In monte, sulla montagna,
È a noi, infermi, che è stato dato,
È da noi che dipende, infermi e carnali,
Di far vivere e di nutrire e di mantenere vive nel tempo
Quelle parole pronunciate vive nel tempo.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE ALL’ARCIVESCOVO DE L’AQUILA IN OCCASIONE DEL RITO DI SUFFRAGIO PER LE VITTIME DEL TERREMOTO

10.04.2009

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato all’Arcivescovo de L’Aquila, S.E. Mons. Giuseppe Molinari, di cui è stata data lettura da Mons. Georg Gänswein all’inizio del rito di suffragio per le vittime del terremoto:

Al Carissimo Arcivescovo Giuseppe Molinarie a tutti voi, carissimi fratelli e sorelle nel Signore,
In queste ore drammatiche in cui un’immane tragedia si è riversata su codesta terra, mi sento spiritualmente presente in mezzo a voi per condividere la vostra angoscia, implorare da Dio il riposo eterno per le vittime, la pronta ripresa per i feriti, per tutti il coraggio di continuare a sperare senza cedere allo sconforto. Ho chiesto al mio Segretario di Stato di venire a presiedere questa celebrazione liturgica straordinaria in cui la comunità cristiana si stringerà intorno ai propri defunti per dare loro l’estremo saluto. Affido a lui, e al mio segretario particolare, il compito di recarvi di persona l’espressione della mia accorata partecipazione al lutto di quanti piangono i loro cari travolti dalla sciagura.
In momenti come questi, fonte di luce e di speranza resta la fede, che proprio in questi giorni ci parla della sofferenza del Figlio di Dio fattosi uomo per noi: la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione siano per tutti sorgente di conforto ed aprano il cuore di ciascuno alla contemplazione di quella vita in cui "non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,4).
Sono certo che con l’impegno di tutti si può far fronte alle necessità più impellenti. La violenza del sisma ha creato situazioni di singolare difficoltà. Ho seguito gli sviluppi del devastante fenomeno tellurico dalla prima scossa di terremoto, che si è avvertita anche in Vaticano, ed ho notato con favore il manifestarsi di una crescente onda di solidarietà, grazie alla quale si sono venuti organizzando i primi soccorsi, in vista di un’azione sempre più incisiva sia dello Stato che delle istituzioni ecclesiali, come anche dei privati.
La Santa Sede intende fare la sua parte, unitamente alle parrocchie, agli istituti religiosi e alle aggregazioni laicali. Questo è il momento dell’impegno, in sintonia con gli organismi dello Stato, che già stanno lodevolmente operando. Solo la solidarietà può consentire di superare prove così dolorose.
Affido alla Vergine Santa persone e famiglie coinvolte in questa tragedia e, attraverso la sua materna intercessione, chiedo al Signore di asciugare ogni lacrima e di lenire ogni ferita, mentre invio a ciascuno una speciale, confortatrice Benedizione Apostolica.


Dal Vaticano, 9 aprile 2009BENEDICTUS PP. XVI

da www.clonline.org

venerdì 10 aprile 2009


TERREMOTO IN ABRUZZO
PASSIONE DELL'UOMO, PASSIONE DI CRISTO
Ancora una volta siamo stati feriti nell’intimo del nostro essere da un
evento sconvolgente. Così sconvolgente che è difficile sottrarsi alla domanda
circa il suo significato, talmente supera la nostra capacità di comprensione.

La questione è tanto radicale quanto scomoda. Non possiamo cercare di
chiuderla in fretta, desiderando di voltare pagina quanto prima per dimenticare.
Non è ragionevole restare prigionieri di una emotività che ci
soffoca, tanto meno spostare l’attenzione su eventuali responsabili.

La carità sterminata, che si è documentata in questi giorni come moto
spontaneo e che sarà necessaria soprattutto nei prossimi mesi quando ci
sarà più bisogno di aiuto, indica che la dimenticanza non è l’unica strada.
Eppure neanche questa mossa è in grado di esaurire l’urgenza della domanda,
suscitata dall’esperienza della nostra impotenza di fronte al terremoto.

Eventi come questo ci mettono davanti al mistero dell’esistenza, provocando
la nostra ragione e la nostra libertà di uomini. Sprecare l’occasione
di guardarlo in faccia ci lascerebbe ancora più smarriti e scettici. Ma per
stare davanti almistero dell’esistenza abbiamo bisogno di qualcosa di più
della nostra pur giusta solidarietà. Da soli non possiamo.

La compagnia di Cristo - che è all’origine dell’amore all’uomo proprio del
nostro popolo - si rivela ancora una volta decisiva nella nostra storia: una
compagnia che dà senso alla vita e allamorte, alle vittime, ai sopravvissutiGiustifica
e a noi stessi, e sostiene la speranza.

L’imminenza della Pasqua acquista, allora, una nuova luce. «Egli che non
ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci
donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32).
Comunione e Liberazione
Aprile 2009.

martedì 7 aprile 2009

Mosè e lo Shuttle. Riflessione religiosa su una tragedia della modernità
Luigi Giussani

Pubblichiamo l’articolo di don Giussani comparso in prima pagina sul Corriere della Sera il 9 febbraio 2003

Caro direttore,osservando le immagini dello Shuttle che precipita, si impone una domanda: con tutto quel che accade, è giusta la vita? Se non rispondessimo, tutto rimarrebbe nella disperazione, come se la tragedia dello Shuttle capitasse centomila volte in un giorno, lasciando centinaia di milioni di persone disperate. Eppure nella sua ricerca di una risposta che affermi la libertà o la bontà o la giustizia, l’uomo incontra un limite, si scopre limitato per natura, così che tutto sembra senza fiato, e appare impossibile a chiunque compiere una sola azione di vita senza commettere ingiustizie o contraddizioni. Siamo tutti come Mosè, cha aveva accompagnato per centinaia di chilometri i suoi; arrivato al confine di quello che sarebbe diventato poi lo Stato di Israele, dall’alto del monte guarda da lontano la Terra Santa senza poterla toccare, poiché Dio gli aveva detto: «Per punizione del tuo timore, del tuo non avermi reso giustizia, tu morirai prima di giungere nella Terra promessa». Infatti sarà Giosuè a fare entrare le truppe per la conquista. Ecco, noi stessi ogni ora siamo come sul limitare di una terra tanto desiderata quanto irraggiungibile. E per questo la domanda sulla riuscita della vita domina le giornate di chiunque abbia respiro umano. Ora, c’è un’unica spiegazione cha dà ragione di tutto ciò che è accaduto: la croce di Cristo; la Sua morte è la risposta di Dio ai nostri limiti e alle nostre ingiustizie. Ci sarebbe un orizzonte di mancanza di ragione in tutte le cose. Qualsiasi evento capiti non troverebbe mai risposta adeguata, se non ci fosse Cristo: Lui segna l’ultima vittoria di Dio sulla realtà umana; qualsiasi cosa accada, è la «misericordia» che legge tutto ciò che è umano. La misericordia: Dio compie la vittoria sul male dentro la storia come positività, è questo che dà la ragione a ciò che accade. Ma l’uomo non riesce a capire questa spiegazione. L’unica possibile spiegazione perché il danno e il male non siano il segno ultimo della storia. Allora avviene una cosa impossibile, la più impossibile: l’uomo si fa giudice di Dio. Mi mette le vertigini pensare al futuro, a quel che l’uomo può fare se giudica ingiusto Dio per qualcosa che accade e che egli non riesce a comprendere. L’uomo non può. Dio può fare e può permettere quello che vuole (è il mistero di Dio, in cui l’uomo non può entrare se Dio non gli apre la porta) e l’uomo che giudicasse Dio - per pura presunzione - compirebbe il vero cataclisma. La tragedia di Gesù è questa! Invece la morte e il destino di Cristo sono la resurrezione della vita: la vittoria sul male. Chi accetta questo fatto, partecipa della resurrezione della vita. Chi, non comprendendolo, non lo accetta, distrugge il mondo. Ma dire che Cristo «ha vinto» è un’espressione strana per l’uomo e così giungiamo ad essa come ad un’uscita misteriosa, che rimane mistero fin quando il Padre lo vuole, finché il mistero di Dio non si riveli. E quando si rivelerà, sarà la fine, la fine del mondo. Per potere dire: «Ha vinto», l’uomo deve fare una scelta: la scelta che il bene trionfi sul male. La scelta del bene e non l’insistente sottolineatura del male. E questo è innegabile che sia giusto: a priori è giusto, non è una spiegazione che possiamo dare noi, ma qualcosa che riconosciamo. Proprio per questo la storia dell’America ci insegna una positività della vita che è di esempio a tutto il resto del mondo. E ci insegna anche che se manca il senso del tutto, questo fa diventare infinita la possibilità di ribellione e di massacro. Dio, il Signore mi fa giungere alla certezza della fede: che l’amicizia di Dio con me, con l’uomo, non può essere messa in discussione da nulla (fin dall’inizio Dio è venuto in terra scegliendosi un popolo, una nazione prediletta per portare il mondo a un compimento che altrimenti non avrebbe mai avuto). Pensare che poco prima di morire Gesù abbia detto: «Amico!» a Giuda che lo tradiva, è una cosa dell’altro mondo. Dice il Salmo 117: «Lodate il Signore perché è buono, eterna è la Sua misericordia». È una cosa dell’altro mondo. Pensavo in questi giorni a Massimiliano Kolbe, che dice al capo tedesco: «Tu ne devi ammazzare dieci, io ne sostituisco uno che ha figli…». E il tedesco accetta l’offerta. Se Hitler fosse stato lì in quel momento, non avrebbe certo premiato quel capitano… il capitano tedesco aveva applicato un’idea di giustizia che non era quella di Hitler; accettando lo scambio, aveva espresso il sentimento naturale di un uomo che poteva avere figli come il condannato. La Chiesa ha fatto santo padre Kolbe perché ha reso giustizia a se stesso davanti a Dio. Come fu per la Madonna, che per me rimane il vertice di quell’evoluzione dell’io che si chiama santità. Per cui di fronte a qualsiasi disastro o limite, un uomo può affermare con sicurezza che la vita è giusta perché va misteriosamente ma sicuramente verso il suo destino di positività.

lunedì 6 aprile 2009

Lela
canto tradizionale della Galizia

http://www.youtube.com/watch?v=xw_X_r1yt5Q&feature=related

Estàn as nubes chorando
por un amor che morrèu.
Estan as ruas molladas,
de tanto como chovèu.

Lela, Lela, Lelina por quen eu morro
quero mirame nas meninas dos teus ollos.
Non me deixes e ten compassiòn de min
sen tì no podo, sen tì no podo vivir.

Dame alento das tùas palabras,
dame celme do teu corazòn,
dame lume das tùas miradas
dame vida co teu dulce amor.

Lela, Lela, Lelina por quen eu morro
queo mirarme nas meninas dos teus ollos.
Non me deixes e ten compasiòn de min
sen tì no podo, sen tì no podo vivir.

Stanno piangendo le nuvole per un amore che finisce, le strade si bagnano per tutto il mio pianto. /Lela, Lela, Lelina che amo tanto, voglio vedermi riflesso nella luce dei tuoi occhi. Non lasciarmi ed abbi compassione di me, senza te non posso vivere.
Dammi respiro con le tue parole, dammi calore col tuo cuore, dammi luce con il tuo sguardo, dammi vita con il tuo dolce amore. /Lela, Lela, Lelina che amo tanto, voglio vedremi riflesso nella luce dei tuoi occhi. Non lasciarmi ed abbi compassione di me, senza te non posso, non posso vivere.


domenica 5 aprile 2009

IN DIFESA DEL VINO
04.04.2009
Contro i talebani del Parlamento, per salvare questa delizia della creazione, segno della civiltà cristiana. Come dicevano Benedetto XVI e don Giussani…



Pare che i politici abbiano individuato la crociata di cui l’Italia di oggi ha bisogno: quella contro il vino. Sì. Siamo in piena crisi economica, inondati di cocaina (specie nei quartieri alti) e altre sozzerie (nei bassifondi), siamo rincoglioniti dai rumori, dai media, nevrastenici e pieni di ossessioni, ansie e paure, ci riempiamo di psicofarmaci, ma il Nemico è diventato lui: il frutto della vite.
E il Parlamento pare stia per dichiarare guerra al vino. Non ai superalcolici – come qualcuno sostiene – ma proprio al vino perché il tasso alcolico imposto per legge a chi guida l’automobile non è tarato sul superalcolico bevuto al pub o in discoteca, ma sul bicchiere di vino bevuto a cena. Tanto che, dopo aver già fissato un limite estremo come lo 0,5 g/litro, assurdo e proibitivo, ora si sta tentando addirittura di imporre lo 0,2 e il “tasso zero”. Dunque guerra totale al vino. Tolleranza zero.
Poco importa, a questi legislatori, che, secondo le statistiche, gli incidenti stradali provocati da abuso di alcol siano una percentuale piccolissima. Stando ai dati Aci-Istat nel 2007 si sono avuti 230.871 incidenti, con 5.131 morti e 325.850 feriti. Ebbene il 93,5 per cento di tali incidenti sono stati provocati da errori di guida (come il non rispetto della precedenza, la guida distratta e la velocità). La voce “stato psico-fisico alterato del guidatore” incide solo per il 3,1 per cento dei casi e comprende l’assunzione di sostanze stupefacenti, il malore, il sonno e infine l’ebbrezza dal alcol. Ciò significa che appena il 2 per cento dei casi è addebitabile a chi ha alzato troppo il gomito e si tratta quasi sempre di superalcolici e di alcolisti veri e propri, non certo del consumo normale e abituale del vino nel corso dei pasti. Dunque il vino (il vino che fa parte della nostra civiltà e della nostra cultura) è pressoché irrilevante fra le cause di incidenti. E’ insomma innocente. Eppure è proprio contro il vino che si bandisce la crociata. Dimenticando, per fare un esempio, che il 5,5 per cento degli incidenti sono provocati dalle pessime condizioni della strada e il doppio dall’uso del cellulare senza auricolare. Ma questo non suscita impressione nel Palazzo.
Il limite attuale, lo 0,5 g/litro, dicevamo, è già proibitivo. Basta cenare assaggiando due bicchieri di vino e si è fuorilegge. Praticamente, ha lamentato ieri il ministro Zaia, questa norma “ha fatto sparire le ordinazioni al ristorante di vini da dessert e produzioni come le grappe”.
Stando così le cose non si capisce per quale misterioso motivo in Parlamento si sta tentando di portare quel limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo zero assoluto. Perché? Risulta forse agli onorevoli legislatori che lo 0,5 si sia rivelato insufficiente e che siano accaduti una quantità di terribili incidenti provocati da gente che aveva un tasso alcolico nel sangue compreso fra lo 0,5 e lo 0, ovvero gente che a cena aveva bevuto appena un bicchiere di vino? No. E’ una casistica inesistente. Ma allora che senso ha abbassare il limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo 0 assoluto? Nessun senso. E nessuna efficacia. Come il drastico 0,5 non ha avuto alcuna efficacia nella prevenzione degli incidenti, non l’avrà nemmeno il suo inasprimento.
In compenso però assesterà un colpo micidiale alla nostra produzione vitivinicola, già provatissima da queste normative e dalla crisi economica che si sta facendo sentire nel settore. Si deve infatti sapere che l’Italia è fra i maggiori produttori europei e mondiali di vino. Ha un’offerta di altissima qualità con 477 vini Doc e Docg (il settore agricolo, che ha un milione di imprese, produce nel suo insieme un valore di 45 miliardi di euro l’anno, secondo solo al comparto manifatturiero).
La crescita della qualità del vino, a scapito della quantità, in Italia è andata di pari passo con una crescita culturale. Infatti il consumo di vino pro capite è passato dagli antichi 120 litri agli attuali 45. Perché cento anni fa il vino, di qualità bassa, era tracannato, un po’ per stordirsi, così come oggi una gioventù ignara del senso della vita ricorre alle droghe o ai superalcolici o al chiasso delle discoteche per lenire la disperazione e la solitudine.
Oggi invece la nostra gente ha imparato a gustare il vino cercando la qualità del sapore e non la quantità che riempie la pancia. Un giorno sentii dire da un vero maestro di vita, don Luigi Giussani, che il vino non si beve per sete, ma per gusto, per assaporare la bontà della creazione. Infatti è fiorita una vera cultura del vino e un’educazione al gusto. Corsi, guide, enoteche. Degustazioni spesso associate alla musica e alla letteratura. O ai prodotti tipici. Oltretutto la produzione vitivinicola è anche quella che, da secoli, ha dato forma e bellezza alle nostre campagne – penso in particolare alla Toscana – e fa letteralmente parte del paesaggio come le pievi romaniche, i borghi, i casolari e le città turrite. Ha quindi una ricaduta anche nel turismo.
Michele Satta, bravissimo produttore della zona di Bolgheri, che esporta i suoi fantastici vini anche in America, in Cina e in Australia, vede in questa assurda mentalità non solo un suicidio economico, ma anche un suicidio culturale: “si va verso una vera e propria criminalizzazione del vino e del suo consumo. E’ una regressione culturale che azzera millenni di civiltà senza alcun motivo fondato, senza alcuna ragione”.
In effetti di questo passo si rischia di considerare il vino, che è una ricchezza culturale ed economica, alla stregua di un vizio, come il fumo. O peggio alla stregua delle sostanze allucinogene. Si finirà per considerare le nostre belle vigne variopinte quasi come le piantagioni di oppio dell’Aghanistan? Vogliamo sperare proprio di no (il Parlamento ascolti ministro Zaia).
Il vino ha accompagnato letteralmente la civiltà umana, tanto che la Bibbia (Gen. 9, 20-27) fa risalire la scoperta del processo di lavorazione del vino addirittura a Noè. Il nome stesso, “vino”, pare venga dal verbo sanscrito “vena”, che significa “amare” da cui infatti proverrebbe anche il nome latino della dèa dell’amore, Venere. Il vino fa parte della civiltà ebraica, greca e romana e la sua gaia bontà tracima nella letteratura di tutti i tempi.
Ma soprattutto ha assunto un significato sacro nella storia cristiana. Il primo miracolo di Gesù, registrato nei Vangeli, è quello del vino alle nozze di Cana. Il vino è il segno di quella convivialità fraterna e festosa del banchetto a cui Gesù stesso ha paragonato addirittura il segno dei Cieli. Il vino fu poi al centro di quella drammatica “ultima cena” nella quale egli istituì il sacramento della sua presenza tangibile nella storia: “sarò sempre fra voi, fino alla fine dei tempi”. I segni scelti da Gesù furono proprio il vino e il pane, segno del suo darsi in pasto e bevanda agli uomini per abbracciarli, sostenerli, salvarli e divinizzarli.
La millenaria liturgia della Chiesa in qualche modo ha una sua mistica espansione nelle nostre campagne dove in giugno si alterna l’oro dei campi di grano al verde dei filari di vite, come se la terra stessa, fecondata dal lavoro umano, celebrasse l’offerta del cosmo intero a Dio, nei segni eucaristici del pane e del vino.
Benedetto XVI ha detto una volta: “Il vino esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino ‘allieta il cuore’. Così il vino e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell'amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino”.
Devo questa citazione a Michele Satta che peraltro – lavorando nelle terre del Carducci – espone nel suo sito anche i versi del poeta mangiapreti, dimostrando che i filari di vite mettono d’accordo tutti: “Della natura tua, forte e cortese,/l'ombra restò nel memore pensiero,/ come il tuo vino, o mio dolce paese,/ il mio verso fervea gentile e austero”.


Antonio Socci

Da “Libero”, 4 aprile 2009