lunedì 26 gennaio 2009

venerdì 23 gennaio 2009

sonetto XVII

Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l'ombra e l'anima.

T'amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.

T'amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

da Cento sonetti d'amore
Pablo Neruda
Giochi ogni giorno con la luce dell'universo.
Sottile visitatrice, giungi nel fiore e nell'acqua.
Sei più di questa bianca testina che stringo
come un grappolo tra le mie mani ogni giorno-

A nessuno rassomigli da che ti amo.
Lasciami stenderti tra ghirlande gialle.
Chi scrive il tuo nome a lettere di fumo tra le stelle del sud?
Ah lascia che ti ricordi come eri allora, quando ancora non esistevi.

Improvvisamente il vento ulula e sbatte la mia finestra chiusa.
Il cielo è una rete colma di pesci cupi.
Qui vengono a finire tutti i venti, tutti.
La pioggia si denuda.

Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
lo posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s'ancorarono al cielo.

Tu sei qui. Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all'ultimo grido.
Raggomitolati al mio fianco come se avessi paura.
Tuttavia qualche volta corse un'ombra strana nei tuoi occhi.

Ora, anche ora, piccola, mi rechi caprifogli,
ed hai anche i seni profumati.
Mentre il vento triste galoppa uccidendo farfalle
io ti amo, e la mia gioia morde la tua bocca di susina.

Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia, al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto ardere tante volte l'astro baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti.

Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell'universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi

Pablo Neruda

mercoledì 14 gennaio 2009

Nativity

Immensity cloistered in thy dear womb,
Now leaves his welbelov'd imprisonment,
There he hath made himself to his intent
Weak enough, now into our world to come;
But Oh, for thee, for him, hath th'Inne no roome?
Yet lay him in this stall, and from the Orient,
Stars, and wisemen will travel to prevent
Th'effect of Herod's jealous general doom;
Seest thou, my Soul, with thy faith's eyes, how he
Which fills all place, yet none holds him, doth lie?
Was not his pity towards thee wondrous high,
That would have need to be pitied by thee?
Kiss him, and with him into Egypt goe,
With his kind mother, who partakes thy woe.
John Donne
Natività
Immensita claustrata nel tuo caro ventre,
ora lascia la sua prigionia tanto amata,
lì ha fatto se stesso intenzionalmente
abbastanza debole per venire, ora, nel nostro mondo;
ma oh, per te, per lui, non ha stanze la locanda?
Eppure posalo in questa stalla, e dall'oriente
stelle e saggi viaggeranno per impedire
l'effetto della gelosa universale condanna di Erode.
Vedi tu, anima mia, con gli occhi della tua fede, come giace colui
che riempie ogni luogo, eppur nessuno lo contiene?
Non fu la sua pietà per te meravigliosamente alta
da aver bisogno di ricevere pietà da te?
Bacialo, e con lui và in Egitto
con la madre gentile, che partecipa dl tuo dolore.
Thou hast made me, and shall thy work decay?
Repair me now, for now mine end doth haste,
I run to death, and death meets me as fast,
And all my pleasures are like yesterday;
I dare not move my dim eyes any way,
Despair behind, and death before doth cast
Such terror, and my feeble flesh doth waste
By sin in it, which it t'wards hell doth weigh;
Only thou art above, and when towards thee
By thy leave I can look, I rise again;
But our old subtle foe so tempteth me,
That not one hour my self I can sustain;
Thy Grace may wing me to prevent his art,
And thou like Adamant draw mine iron heart.
John Donne

Tu mi hai fatto, e dovrà l'opera tua deperire?
Riparami ora, poichè ora la mia fine si affretta.
Io corro alla morte, e la morte m'incontra con ugual fretta,
e tutti i miei piaceri sono come ieri.
Muovere non oso in nessun luogo i miei spenti occhi,
disperazione dietro, e morte davanti gettano
tale terrore, e la mia fragile carne si consuma
nel peccato che ha dentro e le pesa all'inferno;
tu solo sei lassù; e quando a te con tua licenza
io posso guardare, mi risollevo ancora;
ma così mi tenta il nostro vecchio astuto nemico
che non un'ora posso sostenere me stesso;:
la tua grazia può darmi ali per impedirne l'arte,
e come calamita tu attiri il mio cuore di ferro.

domenica 11 gennaio 2009

"Adesso sono solo.
Adesso sono in mezzo ai vivi come il ramo nudo il cui secco rumore fa paura al vento della sera. Ma il mio cuore è gioioso come il nido che ricorda e come la terra che spera sotto la neve. Perchè so che tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il Cielo ne sia lodato!) non è la nostra."
O. V. Milosz, Miguel Manara

Gustave Dorè





“Is this the Region, this the Soil, the Clime,"
Said then the lost Arch angel, “this the seat
That we must change for Heaven?, this mournful gloom
For that celestial light? Be it so, since He
Who now is Sovran can dispose and bid
What shall be right: farthest from Him is best,
Whom reason hath equall'd, force hath made supreme
Above his equals. Farewell, happy Fields,
Where Joy forever dwells: Hail, horrors, hail
Infernal World, and thou profoundest Hell
Receive thy new Possessor: One who brings
A mind not to be chang'd by Place or Time.
The mind is its own place, and in itself
Can make a Heaven of Hell, a Hell of Heaven.
What matter where, if I be still the same,
And what I should be, all but less than he
Whom Thunder hath made greater? Here at least
We shall be free; the Almighty hath not built
Here for his envy, will not drive us hence:
Here we may reign secure; and, in my choice,
To reign is worth ambition, though in Hell:
Better to reign in Hell than serve in Heaven.
But wherefore let we then our faithful friends,
The associates and co-partners of our loss,
Lie thus astonished on the oblivious Pool,
And call them not to share with us their part
In this unhappy Mansion, or once more
With rallied Arms to try what may be yet
Regained in Heaven, or what more lost in Hell?”

John Milton, The Paradise Lost



"E’ questa la regione è questo il suolo e il clima",

disse allora l'Arcangelo perduto, "è questa sede che

abbiamo guadagnato contro il cielo, questo dolente buio
contro la luce celestiale? Ebbene, sia pure così

se ora colui che è sovrano può dire e decidere

che cosa sia il giusto: e più lontani siamo

da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione

e che la forza ha ormai reso supremo

sopra i suoi uguali. Addio, campi felici,

dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori,

mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi

il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi

mai potranno mutare sua mente. La mente è il proprio luogo

e può in se fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo

Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro

dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto

a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno

saremo liberi; poiché l'Altissimo non ha edificato

questo luogo per poi dovercelo anche invidiare,

non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio

regnare è una degna ambizione, anche sopra l'inferno:

meglio regnare all’inferno che servire in cielo.

Quindi perché lasciare gli amici fedeli,

gli alleati e i partecipi di questa nostra perdita,

giacere così attoniti sull'acque immemoriali,

e non chiamarli con noi a condividerela loro sorte in questa dimora infelice,

o a tentare con noi nuovamente, riprese le armi,

ciò che ancora può essere riconquistato in cielo?














venerdì 9 gennaio 2009

Edward Hopper, Morning Sun , 1952, olio su tela, 71,4 x 101,9 cm, Columbus Museum of Art, Ohio

ICARO

Appartengo, fin dal principio, al cielo?Se non v'appartengo, perché
mi ha fissato così, per un attimo,
e mi ha attirato lassù, con la mia mente, in alto, sempre più in alto,
e senza tregua mi seduce e mi trascinaverso altezze remote all'umano?
L'equilibrio severamente studiato,
il volo razionalmente calcolato,
nessuna anomalia sarebbe possibile;
perché dunque la brama di salire nel cielo
è così simile, in sé, alla follia?Niente mi può appagare,
subito mi tedia qualsiasi novità terrestre.
Più in alto, più in alto, instabilmente
vengo trascinato sempre più vicino al fulgore del sole.
Perché la sorgente di luce della ragione mi brucia,
perché la sorgente di luce della ragione mi annienta?
Sotto di me, in lontananza, villaggi e fiumi sinuosi
assai più tollerabili appaiono di quando sono vicini.
Perché mi perdonano, mi approvano, mi invitano,
suggerendo che così lontano
potrei anche amare l'umano
sebbene un simile amore non possa essere la mia meta?
E, se anche lo fosse, non avrei forse
ragione di appartenere fin dal principio al cielo?
Mai ho invidiato la libertà degli uccelli,
mai ho desiderato l'indolenza della natura,
incitato solo dal misterioso struggimento
a salire, ad avvicinarmi, ad immergermi nell'azzurro del cielo.
Così contrario alle gioie organiche,
così lontano dai piaceri di uno spirito superiore.
Più in alto, più in alto, irretito, forse, dalla lusinga e dalla vertigine delle ali di cera?
E dunque,
Se dal principio appartenessi alla terra?
E perché la terra, se così non fosse,
provocherebbe con tanta rapidità la mia caduta
senza concedermi il tempo di pensare o di sentire?
Perché la terra così morbida e languida,
mi ha accolto con l'urto della lamina d'acciaio?
La tenera terra si è trasformata in acciaio
solo per mostrarmi la mia fragilità,
affinché la natura mi mostrasse
che la caduta è molto più naturale del volo,
molto più naturale di quella misteriosa passione?
L'azzurro del cielo è un'illusione
prodotta dall'ebbrezza bruciante ed effimera
delle ali di cera, e tutto, fin dal principio
fu escogitato dalla terra, a cui io appartengo?
O forse il cielo, segretamente, favorì il piano
per colpirmi con la sua punizione?Per punirmi della colpa
di non credere che esista un io,
o di credere troppi bel mio io,
di volere impazientemente conoscere a chi io appartenga,
o di presumere di sapere tutto
e di tentare di volare lontano,verso l'ignoto,
o verso il conosciuto, sempre verso il punto di un azzurro simbolo?

yukio mishima
ALI
YUKIO MISHIMA

http://www.pedro.it/webs/millelireonline.it/SchedeMOL/4_ali/Pagine/alionline.htm

giovedì 8 gennaio 2009

Di fronte alla persona amata è molto più grande l'intensità dell'amore quando ti fermi ad un metro, e tutto vibra, e tutto sembra volerla afferrare. Non per trattenerti dall'afferrare, ma perché c'è un'adorazione e un riconoscimento del significato della cosa. E tu sei lì che vivi questo sentimento di significato e trattieni l'impeto che ti spingerebbe ad una presa puramente meccanica. Peramare una presenza tu devi riconoscere che essa è del Mistero, di Cristo: ciò di cui è fatta è Cristo. E tutto in te viene proteso come domanda a Cristo che sisveli, che si faccia vedere. Perché quando Cristo si farà vedere in quella faccia, sarà la fine del mondo, sarà l'Eternità! Essere ad un metro senza prendere vuol dire essere tutto proteso nel prendere coscienza del segno che essa è, del valore di segno che essa è. Per questo niente al mondo la può cancellare, proprio perché è segno di Cristo. Se è segno di Cristo, quello che ti viene come conseguenza è lo struggimento perché Cristo si riveli in lei.

Don Giussani

martedì 6 gennaio 2009

HAIKU
colori lievi
solo camelie
nella foschia mattutina
Mizuhara Shuõshi

nella pioggia primaverile
di certo, è uscito
lo spiritello della pietra.
Murakami Kijo

solitudine:
i fuochi d'artificio che fioriscono,
dopo cade una stella
Masaoka Shiki

aranci in fiore
quelle montagne mordono
l'azzurro del mare
Katsuo Sekimori

fiori di pruno:
si raccoglie il fresco
negli angoli della stanza
Yosa Buson

stanchezza:
entrando in una locanda,
i glicini
Matsuo Bashõ

tra la barca e la riva
a separarci si alza un salice
Masaoka Shiki

ad ogni cancello
la primavera comincia
dal fango sui sandali
Kobayashi Issa

PENSIERO DOMINANTE
Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lùgubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi
Chi non sentì? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir proprio sprona,
Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguàr. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
Che divenute son, fuor di te solo,
Tutte l'opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
Gli ozi, i commerci usati,
E di vano piacer la vana spene,
Allato a quella gioia,
Gioia celeste che da te mi viene!
Come da' nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente,
Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco
Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso
Come d'altri desiri,
Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.
Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso.
Sempre i codardi, e l'alme
Ingenerose, abbiette
Ebbi in dispregio.
Or punge ogni atto indegno
Subito i sensi miei;
Move l'alma ogni esempio
Dell'umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l'util chiede,
E inutile la vita
Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento. A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto.
A quello onde tu movi,
Quale affetto non cede?
Anzi qual altro affetto
Se non quell'uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor, di regno,
Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest'uno,
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita
Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.
Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,
E sostener molt'anni
Questa vita mortal, fu non indegno;
Ed ancor tornerei,
Così qual son de' nostri mali esperto,
Verso un tal segno a incominciare il corso:
Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai finor sì stanco
Per lo mortal deserto
Non venni a te, che queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov'io,
Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni
Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno
In molta parte onde s'abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori,
Divina sei; perché sì viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,
E spesso al ver s'adegua,
Né si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo, o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei,
Cagion diletta d'infiniti affanni,
Meco sarai per morte a un tempo spento:
Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento
Che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo,
Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia.
Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell'alte vie dell'universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
Giacomo Leopardi
Aspasia
Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
Per abitati lochi a me lampeggia
In altri volti; o per deserti campi,
Al dì sereno, alle tacenti stelle,
Da soave armonia quasi ridesta,
Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina
Quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed erinni! E mai non sento
Mover profumo di fiorita piaggia,
Nè di fiori olezzar vie cittadine,
Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno
Che ne' vezzosi appartamenti accolta,
Tutti odorati de' novelli fiori
Di primavera, del color vestita
Della bruna viola, a me si offerse
L'angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice, fervidi sonanti
Baci scoccavi nelle curve labbra
De' tuoi bambini, il niveo collo intanto
Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
Con la man leggiadrissima stringevi
Al seno ascoso e desiato. Apparve
Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
Divino al pensier mio. Così nel fianco
Non punto inerme a viva forza impresse
Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
Ululando portai finch'a quel giorno
Si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar. Vagheggia
Il piagato mortal quindi la figlia
Della sua mente, l'amorosa idea
Che gran parte d'Olimpo in se racchiude,
Tutta al volto ai costumi alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l'errore e gli scambiati oggetti
Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa
La donna a torto. A quella eccelsa imago
Sorge di rado il femminile ingegno;
E ciò che inspira ai generosi amanti
La sua stessa beltà, donna non pensa,
Nè comprender potria. Non cape in quelle
Anguste fronti ugual concetto. E male
Al vivo sfolgorar di quegli sguardi
Spera l'uomo ingannato, e mal richiede
Sensi profondi, sconosciuti, e molto
Più che virili, in chi dell'uomo al tutto
Da natura è minor. Che se più molli
E più tenui le membra, essa la mente
Men capace e men forte anco riceve.
Nè tu finor giammai quel che tu stessa
Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
Che smisurato amor, che affanni intensi,
Che indicibili moti e che deliri
Movesti in me; nè verrà tempo alcuno
Che tu l'intenda. In simil guisa ignora
Esecutor di musici concenti
Quel ch'ei con mano o con la voce adopra
In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta
Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
Della mia vita un dì: se non se quanto,
Pur come cara larva, ad ora ad ora
Tornar costuma e disparir. Tu vivi,
Bella non solo ancor, ma bella tanto,
Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.
Pur quell'ardor che da te nacque è spento:
Perch'io te non amai, ma quella Diva
Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
Sua celeste beltà, ch'io, per insino
Già dal principio conoscente e chiaro
Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi,
Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,
Cupido ti seguii finch'ella visse,
Ingannato non già, ma dal piacere
Di quella dolce somiglianza un lungo
Servaggio ed aspro a tollerar condotto.
Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
L'altero capo, a cui spontaneo porsi
L'indomito mio cor. Narra che prima,
E spero ultima certo, il ciglio mio
Supplichevol vedesti, a te dinanzi
Me timido, tremante (ardo in ridirlo
Di sdegno e di rossor), me di me privo
Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
Spiar sommessamente, a' tuoi superbi
Fastidi impallidir, brillare in volto
Ad un segno cortese, ad ogni sguardo
Mutar forma e color: Cadde l'incanto,
E spezzato con esso, a terra sparso
Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni
Di tedio, alfin dopo il servire e dopo
Un lungo vaneggiar, contento abbraccio
Senno con libertà. Che se d'affetti
Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno,
Già del fato mortale a me bastante
E conforto e vendetta è che su l'erba
Qui neghittoso immobile giacendo,
Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.
Giacomo Leopardi

domenica 4 gennaio 2009
















































Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

(Eugenio Montale, Ossi di seppia)
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari,il tuo mattino
e' dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

(Eugenio Montale, Ossi di seppia)
Gloria del disteso mezzogiorno
quand' ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d' attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non é dunque passato:
l' ora più bella é di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.
L' arsura, in giro; un martin pescato
revolteggia s' una reliquia di vita.
La buona pioggia é di là dallo squallore,
ma in attendere é gioia più compita.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia)
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)